Papa e Vaticano

Tomasi: «Necessario approccio integrato per rifugiati, pace e povertà»

«Stiamo costruendo fisicamente e anche moralmente il nuovo Dicastero». È quanto osserva monsignor Silvano Maria Tomasi, spiegando come procede il lavoro per dare forma al nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale. È un pezzo importante di quella riforma della Curia romana voluta da Papa Francesco; in sostanza si tratta dell’accorpamento di ben quattro organismi prima distinti: il Pontificio Consiglio «Giustizia e Pace», Cor Unum, il Pontificio Consiglio per i migranti e quello per gli Operatori sanitari. «Io sono un nunzio in pensione – aggiunge Tomasi – reclutato a dare il mio aiuto in questa transizione da quattro precedenti pontifici consigli in questa nuova realtà». Con l’incarico di segretario delegato del nuovo Dicastero, l’arcivescovo ha portato nel nuovo organismo «sociale» voluto da Francesco, la sua lunga esperienza maturata come osservatore della Santa Sede alla sede delle Nazioni Unite di Ginevra. Lì, fra l’altro, ha collaborato con l’attuale Segretario generale dell’Onu, il portoghese Antonio Guterres, con il quale si sente spesso. Guterres non a caso dovrebbe essere presente insieme al Papa anche alla prossima importante iniziativa promossa dal Dicastero che si terrà a novembre nell’Aula del sinodo in Vaticano: una conferenza internazionale sul disarmo nucleare alla quale saranno presenti premi nobel per la pace, leader politici, personalità appartenenti a varie discipline e competenze, leader religiosi. Nel frattempo il nuovo organismo lavora e mantiene contatti con nunziature, Conferenze episcopali, ministri di varie parti del mondo. Entrando nell’edificio di piazza san Callisto, nel cuore del quartiere Trastevere a Roma, si tocca con mano il «cantiere aperto»: l’aria che si respira negli ampi corridoi è quella di un gigantesco trasloco in corso.

Monsignor Tomasi, che tempi ci sono per far entrare a regime, come si dice, la nuova struttura?

«Direi che siamo arrivati al punto in cui l’elefante comincia a camminare, come dice il cardinale Turkson che è il prefetto di questo Dicastero. E di fatto penso che abbiamo raggiunto l’integrazione dei vari gruppi di personale che erano assegnati a differenti compiti, ora sono stati inglobati in un sistema nuovo; non solo questo, ma anche il rinnovamento dell’ambiente fisico, farà si che fra qualche settimana veramente potremo dire di essere in carreggiata».

In che modo si sta organizzando il Dicastero per lo Sviluppo umano integrale?

«Il nuovo Dicastero è in cammino. Papa Francesco ha completato la leadership: prefetto, segretario, tre sotto-segretari. Il settore immigrazione e rifugiati e vittime della tratta è parte dell’organismo, ma dipende direttamente dal Papa che ha messo a coordinarlo due sotto-segretari che riferiscono a lui. Il quadro organizzativo ora è stato completato. Il processo di accorpamento è stato complesso per mettere assieme stili di lavoro, sensibilità sociali diverse e sviluppare un metodo comune basato sull’interdipendenza delle grandi questioni sociali di oggi. Il vantaggio di questa riforma sta nell’approccio integrato. Non si può parlare di rifugiati senza parlare di pace o di lotta alla povertà senza parlare di diritti umani e dignità di ogni persona. In un mondo globalizzato, una risposta coerente e comprensiva era necessaria».

Quali sono le competenze che verranno individuate oltre a quella dei migranti?

«Il Dicastero porta avanti il dialogo della Santa Sede, della Chiesa, con il mondo contemporaneo. Il quadro organizzativo risponde alla richiesta del Concilio Vaticano II di sintonizzarsi con le sofferenze e speranze della gente di oggi. Così le aree di competenza abbracciano il sostegno ai diritti umani, il disarmo, le migrazioni, la cura del creato, la ricerca della pace, il lavoro, il servizio della carità, la salute, ecc. Direi che il Dicastero applica alle nuove circostanze e alle nuove scoperte la dottrina sociale della Chiesa che propone la fraternità e avanza alla luce che il Vangelo irradia».

Si può fare un primo bilancio dell’impatto che ha avuto la Laudato si’ a due anni dalla sua pubblicazione, sia all’interno della Chiesa che al di fuori di essa?

«L’enciclica Laudato si’ continua ad avere un impatto straordinario sulle politiche ambientali della comunità internazionale come dei singoli Paesi. In realtà, l’enciclica va al di là delle preoccupazioni ambientali e climatiche e si inserisce nell’alveo della tradizione e dell’insegnamento sociale della Chiesa cattolica. Affronta alla radice le ideologie e le situazioni che scalzano la solidarietà indispensabile per una società più giusta, più umana. Muri ed esclusione non sono nel vocabolario di questa enciclica che ci invita a guardare al mondo dalle sue periferie. In genere le grandi encicliche sociali fanno un passo in avanti, non cambiano i principi fondamentali ma rispondono alle nuove esigenze di quanto sta avvenendo nel mondo contemporaneo. E anche la Laudato si’ contiene alcune intuizioni nuove, come quelle di guardare alla realtà sociale dalla periferia invece che dal centro, di tener conto in maniera seria dei dati della scienza per quanto riguarda l’ambiente, di vedere l’economia come un servizio alla persona umana, quindi affronta il tema della crisi dell’economia degli ultimi anni basata sui guadagni artificiali rispetto alla realtà economica del lavoro e della produttività concreta; queste preoccupazioni sono state messe a fuoco in modo molto originale secondo me».

È quindi possibile dire che i temi legati al cambiamento climatico e ai nuovi modelli di sviluppo costituiscano una parte nuova, originale, della dottrina sociale della Chiesa?

«La Laudato si’ mostra l’interconnessione dei problemi sociali e di conseguenza la necessità di rispondervi assieme. Riconosce senza ambiguità il dono della creazione e della responsabilità che ha l’uomo di gestirla bene. Ribadisce il concetto di sviluppo che 50 anni fa Paolo VI lanciò nella Populorum Progressio: sviluppo di tutto l’uomo e di ogni uomo. Propone un’autorità politica mondiale per sradicare la povertà. Dà spazio nuovo all’analisi scientifica. Si muove su un terreno più esteso di quello dello sviluppo sostenibile perché lo sviluppo integrale del linguaggio della dottrina sociale della Chiesa apre alla trascendenza e tiene conto del realismo cristiano, come Sant’Agostino lo descrive in maniera incisiva: il nostro cuore è inquieto finché non riposi in Dio. Questa enciclica legge la realtà con gli occhi delle vittime per cui economia, politica, ambiente hanno un ruolo nuovo».

Lei conosce bene i problemi legati alle migrazioni, perché a suo avviso l’Europa oggi mostra tanto timore rispetto al tema dell’integrazione dei nuovi arrivati sotto il profilo culturale, religioso e legislativo?

«Se guardiamo la storia delle migrazioni, compresa la grande migrazione italiana verso gli Stati Uniti, vediamo che il primo impatto crea una resistenza non piccola da parte delle popolazioni locali, gli stessi cattolici americani pensavano che gli italiani non erano cattolici veri perché avevano dei costumi strani: processioni, statue di santi, attaccavano i dollari alle statue di san Rocco e santa Rosalia; da qui nasceva un grande scandalo per i cattolici di matrice irlandese o tedesca. Oggi nell’Europa ci troviamo in una situazione simile. Vediamo masse di gente che arriva con delle tradizioni molto diverse, per cui si ha paura che l’identità nazionale o l’identità europea, vengano in qualche modo diluite in maniera irriconoscibile. Mentre se noi lavoriamo con buona volontà è possibile creare un’identità che ha come base i valori fondamentali dell’Europa, che però aggiunge qualcosa e allarga un po’ l’orizzonte includendo, nel costruire il futuro, anche l’apporto positivo di queste nuove popolazioni. Però allo stesso tempo mi pare sia giusto che alcuni valori fondamentali debbano essere accettati: la libertà di coscienza, la separazione fra la religione e la politica. Se si fa questo allora, addirittura le grandi migrazioni verso l’Europa potrebbero essere il momento critico che aiuta per esempio il mondo arabo-musulmano a guardare alla modernità con occhi nuovi, senza rinunciare alla loro identità islamica ma allo stesso tempo interpretandola in maniera adeguata alle esigenze del mondo moderno».

In tal senso, e oltre le polemiche, lo Ius soli è una legge che dovrebbe essere approvata tranquillamente, perché riguarda in particolare le future generazioni…

«In base alla mia esperienza, per esempio negli Stati Uniti e in Canada, o in grandi Paesi d’immigrazione come l’Australia, il Brasile, o l’Argentina dei tempi passati, la seconda e terza generazione, lentamente si sono integrate perché le società erano aperte a favorire questa integrazione, attraverso la scuola e soprattutto attraverso il lavoro e attraverso la possibilità di partecipare alla vita pubblica, che rappresenta un momento essenziale per potersi sentire parte della nuova realtà. Quindi anche in Europa, invece di rinchiudersi in partiti xenofobi e cercare la risposta alle difficoltà che sono reali nell’incontro di culture diverse di gente diversa, bisogna dialogare e aprirsi e in questo dialogo si può costruire il futuro insieme».

Quali sono le priorità per far fronte al fenomeno migratorio: revisione del regolamento di Dublino, accordo per l’accoglienza diffusa fra i Paesi europei, riconoscimento dello status di profughi temporanei a chi arriva?

«Potrebbe sembrare strano, ma le migrazioni attuali non sono un fenomeno veramente eccezionale. Esprimono lo stato del nostro mondo, sono la luce rossa d’allarme che guerre, persecuzioni, ingiustizie strutturali piagano il mondo e sradicano milioni di persone dal loro contesto sociale e culturale. Continuano ciò che è sempre avvenuto nella storia con il movimento di popoli. A lungo andare, le migrazioni risultano un beneficio per i migranti, i paesi di origine e di accoglienza. Mi sembra che attualmente si debba prendere coscienza che le migrazioni sono globali e non solo un fenomeno per l’Europa; che sono un fenomeno normale nella storia; che l’attenzione deve focalizzarsi sulle cause e sulla gestione del fenomeno. Ogni misura che aiuti a prevenire le continue morti in mare e nei deserti di chi cerca asilo è benvenuta: corridoi umanitari, accordi bilaterali o multilaterali ragionevoli, visti umanitari. A mio avviso ci sono due punti chiave che si devono prendere in considerazione. Il primo è di rendersi conto della continuità del fenomeno migrazioni. Squilibri demografici ed economici e cambiamenti climatici come la desertificazione portano il dibattito pubblico sulle cause, come del resto deve essere, di queste masse in movimento. Muri e misure di controllo non eliminano le cause, ma lo fanno scelte politiche che evitano i conflitti violenti e che includono i Paesi di emigrazione nell’accesso alla tecnologia, ai mercati, ai medicinali necessari, ecc. Il secondo punto è la formulazione di un programma articolato di integrazione senza il quale l’accoglienza diventa sempre più problematica. Perciò l’insegnamento della lingua nazionale, l’accesso al lavoro, diventano esigenze primarie che fanno degli immigrati una forza nuova positiva nel Paese e nell’economia che li riceve. In questa prospettiva mi pare giusto che i nuovi arrivati accettino incondizionatamente, come dicevo, alcuni valori fondamentali che rendono possibile una convivenza pacifica e costruttiva: uguaglianza uomo-donna, libertà di coscienza e di credo, separazione tra religione e politica, pluralismo socio-culturale. Allora assieme si potrà costruire un futuro più ricco e più umano».

Sembra però che i governi europei non facciano i conti con una questione: le gravi crisi umanitarie e politiche che attraversano diversi Paesi africani e del Medio Oriente. Come si può rompere questa indifferenza? 

«Le crisi che tormentano da decenni i Paesi del Medio Oriente e dell’Africa bloccano il loro sviluppo e generano nuove ondate di famiglie e individui, molti di essi minorenni, sradicati dal loro ambiente. Non mi pare tanto che ci sia indifferenza da parte del mondo occidentale, quanto piuttosto interferenza. Nello scacchiere di influenze geopolitiche, le scelte che vengono prese non sembra calcolino le conseguenze di quante persone saranno costrette all’esilio e di quante perderanno la vita. Le alleanze vengono fatte per gli interessi che generano anche se ne risulta una terza guerra a pezzi, come ha detto Papa Francesco. Mi sembra più ragionevole prevenire le migrazioni che dare qualche aiuto umanitario dopo averle provocate direttamente o indirettamente».

Anche in base alla sua esperienza diplomatica alle Nazioni Unite, ritiene che la comunità internazionale possa prendere coscienza della situazione e agire o i veti reciproci, gli interessi particolari, prevarranno?

«Le Nazioni Unite terranno una Conferenza internazionale sulle migrazioni e i rifugiati nel dicembre 2018. Si tratta di un evento in linea con le grandi conferenze Onu su popolazione e sviluppo, sulla donna, sui diritti umani, il Summit umanitario. Alcuni di noi avevamo proposto una simile Conferenza sulle migrazioni già nel 1994 al Cairo alla Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo. Ora è arrivata. Meglio tardi che mai. Nella conferenza del prossimo anno, già in preparazione, si vuole arrivare ad un patto mondiale che abbracci tutti gli aspetti del fenomeno migrazioni e rifugiati, a due «social compacts» che guidino e coordino le politiche riguardanti questa gente alla ricerca di sopravvivenza e benessere. È un passo in avanti senza dubbio. Ma il controllo delle frontiere è un diritto gelosamente protetto, anche perché viene associato con l’identità nazionale. Ci vuole quindi un lavoro capillare di educazione per far entrare nella coscienza la convinzione che la famiglia umana viene prima delle frontiere e che solo con un cuore aperto alla solidarietà si arriverà a delle misure efficaci e utili. Il cammino è in salita, ma l’occasione della conferenza Onu del prossimo anno a New York non è da sciupare».

Secondo lei in un quadro tanto frammentato e critico, c’è il rischio reale che sorgano nuovi conflitti dovuti anche ai milioni di profughi che si stanno spostando all’interno dell’Africa, ma anche in Medio Oriente fino al Mediterraneo?

«I focolai di violenza nelle varie regioni del mondo producono vittime, rifugiati, e questi cercano di scegliere le vie meno ostacolate dove andare per sopravvivere. La frustrazione creata da lunghi periodi in campi profughi può spingere qualche giovane che non vede vie di uscita per il suo futuro a tentare la sorte con gruppi radicali e violenti. Ma la grande maggioranza dei rifugiati sono famiglie normali che hanno sperimentato sulla loro pelle la negatività della violenza. Anche per prevenire la possibile manipolazione di gruppi di rifugiati incombe sulla comunità internazionale, su ciascuno di noi, di accelerare la ricerca di soluzioni dignitose e sicure per tante persone che soffrono la tragica esperienza dello sradicamento dal proprio ambiente e dagli affetti più cari».

(Francesco Peloso / Vatican Insider)

 

19 Luglio 2017 | 12:10
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