Ticino: il racconto di alcuni operatori in prima linea contro il coronavirus

Li abbiamo visti tutti: qualcuno dal vivo, i più sui social e alla televisione: con i segni delle mascherine intorno agli occhi, sulla fronte, sul mento. Gli occhi arrossati. Le mani cotte dai guanti di lattice. Sono gli infermieri e le infermiere. Quelli che il contagio lo stanno combattendo in prima linea, nei reparti di medicina intensiva. Ma non solo. Per loro, quelle cifre che ogni sera i media ci riportano aggiornate, sono «tamponi» da effettuare, parametri vitali da monitorare, medicamenti da somministrare ma anche e soprattutto: nomi, storie, vite. L. (nome noto alla redazione) lavora in una casa anziani. La sua voce suona stanca al telefono. Da quando è scoppiata la pandemia, combatte con la gastrite e ha temuto di aver preso il coronavirus, ma per fortuna era solo un’influenza, che ha però dovuto trascorrere in isolamento, fino alla scomparsa dei sintomi. La tranquillità della casa anziani dove lavora, da un mese ormai, è cambiata. Niente più nuove entrate, niente più messa quotidiana, niente più momenti comuni in salone, niente più laboratori di attività. «Non è facile – ammette L. – la faccenda è seria. Dentro e fuori la casa anziani. Perché si portano a casa non solo le preoccupazioni del lavoro, delle persone che ci sono affidate, ma anche la paura di contagiare le persone care che ci aspettano a casa, o che frequentiamo abitualmente. I miei genitori hanno fatto fatica per la prima settimana, ma poi hanno capito. Ma certo è doloroso non potersi più vedere come prima. Ci sono delle mie colleghe che vivono con i genitori in casa, che hanno dovuto suddividere gli spazi, per evitare il contatto troppo ravvicinato ». Grazie a telefonini e tablet, durante quelli che erano gli orari di visita si chiamano i parenti di quanti lo richiedono: un sorriso, una battuta e… il tempo torna a scorrere più lieve. N. (altro nome noto alla redazione), lavora al Centro Psichiatrico Cantonale a Mendrisio nel reparto di geriatria, o come dice lei, «nel reparto dei nostri nonni che hanno problemi cognitivi associati a patologie psichiatriche». «I vecchietti – racconta N. – capiscono che c’è qualcosa di strano nell’aria. E spesso per poter comunicare bisogna togliersi la mascherina e sorridere: e allora i cuori tornano ad allargarsi!»

Lara Allegri, consulente dell’associazione Alzheimer del Moesano, mette l’accento sul maggior onere che le famiglie che accudiscono un anziano con demenza e disturbi comportamentali si trovano in questa situazione, a sostenere. Restare in casa 24 ore al giorno insieme al malato perché il centro diurno è chiuso e per precauzione sono state allontanate tutte le figure di sostegno abituale, è indubbiamente pesante. Inoltre, vi è la grande difficoltà di non poter spiegare al proprio caro il perché dei cambiamenti che sono intervenuti nel normale svolgimento della vita quotidiana. Una situazione che mette davvero a dura prova le famiglie curanti. Ma anche qui alcune strategie da adottare ci sono: cercare di mantenere il più possibile la routine quotidiana o mantenere stabili nel corso dei giorni, i cambiamenti intervenuti; prendersi, come curante, dei momenti anche per se stessi; cercare di creare momenti piacevoli: fare un po’ di ginnastica ecc. e cercare di evitare l’esposizione dei malati a telegiornali e informazioni relative alla pandemia: notizie che finirebbero solo per allarmarli e renderli ancora più inquieti. E infine, non esitare a chiedere aiuto per la spesa e per grandi e piccole altre incombenze.

Corinne Zaugg

30 Marzo 2020 | 07:24
Tempo di lettura: ca. 2 min.
Condividere questo articolo!