Coronavirus in Ticino: le riflessioni del dottor Pedrazzini, co-primario del cardiocentro di Lugano
Abbiamo chiesto a Giovanni Pedrazzini, co-primario del Cardiocentro e professore all’USI di Lugano, quali sentimenti provasse di fronte a questa emergenza sanitaria che ha colpito il mondo intero.
Prof. Pedrazzini, lei da medico credente, come sta guardando a questa pandemia?
«Credo di provare i sentimenti che ha provato e sta provando tanta gente. Da una parte la sensazione che sta succedendo (ed in parte è già successo) qualcosa di più grande di noi, che segnerà il nostro tempo e lascerà una cicatrice profonda nella storia. Un evento che ci riempie di incertezza e di un grande senso di vulnerabilità. Ma allo stesso tempo una riscoperta di valori che pensavamo persi nell’oblio della frenesia. Come credente lo vedo anche come «il momento del silenzio», il silenzio di fronte al dolore di tanta gente e di tante famiglie, il silenzio della distanza fra le persone ed il silenzio della chiese vuote. Un silenzio che forse ci aiuterà a ritrovare il senso e la nostalgia dell’Alto ma che ci interroga anche sulla nostra fede. Vorrei dire addirittura che ci obbliga a mettere in questione ed anche alla prova il nostro credo. In questo senso lo vedo come un tempo di grandi opportunità, anche spirituali.
Secondo lei, quale visione della vita e dell’uomo sta emergendo?
Mi sto facendo l’idea di una bella umanità, generosa, solidale e creativa. Finora questa immensa sfida è stata interpretata e vissuta come una grande opportunità di provare ad offrire un’alternativa ad un presente che tanti cominciano a sentire come scomodo. Tutto dipenderà poi dalla durata di questo momento e dai sacrifici, che potranno essere molto grandi, che ci imporrà. Se non ci logorerà troppo, forse ne uscirà una società migliore, globalmente più rispettosa (verso l’altro, verso la natura). Se ci metterà in ginocchio, e questo oggigiorno nessuno è in grado di escluderlo, allora potrebbe darsi che esca l’uomo peggiore, quello che addita l’untore e attacca il proprio vicino. L’uomo è pur sempre uomo e non credo che sarà un coronavirus a cambiarlo.
Cosa può insegnare questa epidemia all’umanità di oggi e di domani?
Penso che sia ancora presto per parlare di insegnamento, quelli ce li darà poi la storia quando avrà imparato abbastanza da questa lezione. Per ora siamo ancora nella fase delle emozioni e delle sensazioni. Una di queste, che potrebbe diventare insegnamento (e sarebbe una gran bella cosa), è che l’epidemia ci sta obbligando a far leva sui nostri valori e sulle nostre capacità migliori. E oggettivamente solo dando il meglio di noi stessi come individui e come società abbiamo delle possibilità reali di venire a capo di questa sfida globale.
Cosa vuol dire stare vicino ai pazienti in questo momento?
Il mio forse non è il miglior punto di osservazione. Nella mia funzione ho lavorato piuttosto in retrovia, pur restando in contatto con il fronte dei medici e delle persone che hanno lavorato in prima fila. E la narrazione di quello che è stato fatto mi riempie di gratitudine e di ammirazione per tutte quelle persone (medici, infermieri, volontari, personale dell’ambulanza, civili e tanti altri ancora) che non hanno esitato a mettersi in discussione e sporcarsi le mani con la sofferenza altrui, onorando nel migliore dei modi l’umanità e la nostra meravigliosa professione sanitaria.
Silvia Guggiari