Internazionale

Shen Bin: in Cina nessuno vuole una Chiesa separata dal Papa

Quando deve descrivere la condizione della Chiesa cattolica in Cina, Giuseppe Shen Bin ricorre spesso a immagini evangeliche suggestive. Ripete che le comunità cattoliche cinesi sono come i tralci attaccati alla vite, per indicare la sorgente reale e inestinguibile della comunione di ogni vescovo col Successore di Pietro. E ricorda l’invito di Gesù a essere «astuti come serpenti e semplici come colombe», per far comprendere quali siano gli atteggiamenti più convenienti per i vescovi cinesi nella condizione reale in cui si trovano a operare.

 

Giuseppe Shen Bin, vescovo cattolico di Haimen, nella provincia costiera dello Jiansu, è nato nel 1970 in una famiglia cattolica, ha studiato al Seminario Nazionale di Pechino ed è stato ordinato sacerdote nel 1996. La sua ordinazione episcopale è avvenuta nella cattedrale di Nantong il 21 aprile del 2010, con il mandato pontificio e il riconoscimento delle autorità politiche.

 

Ora Shen viene indicato come un vescovo apprezzato e valorizzato dagli apparati del governo cinese. L’ultima Assemblea dei rappresentanti cattolici cinesi lo ha eletto vice-presidente dell’Associazione patriottica e del Consiglio dei vescovi cinesi (non riconosciuto dalla Santa Sede). Shen considera la possibile riconciliazione tra le comunità cattoliche cinesi «ufficiali» e quelle cosiddette «clandestine» come il frutto più prezioso e desiderabile che ci si può attendere dal dialogo in atto tra governo cinese e Santa Sede. E così mostra di guardare alle vicende e ai problemi del cattolicesimo cinese con unasensus Ecclesiae che non si ritrova in molti degli interventi e dei commenti dedicati alla questione dei rapporti sino-vaticani.

 

Vatican Insider ha potuto intervistare Giuseppe Shen Bin in occasione della sua partecipazione al meeting «strade di pace» organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio presso le diocesi tedesche di Münster e a Osnabrück dal 10 al 12 settembre.

 

Quali sono i criteri che vi guidano, nel vostro lavoro pastorale? Cosa vi sta più a cuore? Cosa vi conduce e vi sostiene, nella vostra missione, lungo il cammino? 

«Io sono un vescovo. E come vescovo sono chiamato a prendermi cura della vita della diocesi, con una particolare attenzione ai sacerdoti e alle religiose, per sostenerli nel compito di annunciare il Vangelo. Approfitto anche io di ogni occasione, anche nelle parrocchie, per annunciare la salvezza e la felicità portate da Cristo. Questa è la mia vita. Sono queste le cose che riempiono le mie giornate di impegni e pensieri».

 

Ad annunciare il Vangelo sono chiamati solo sacerdoti, religiosi e religiose? E il popolo di Dio?

«Col tempo ci stiamo accorgendo sempre più che ogni battezzato annuncia il Vangelo, quando testimonia nella sua vita gli effetti del dono del battesimo. Per questo si moltiplicano in tutta la Cina anche tanti corsi e incontri rivolti ai laici, per sostenerli e incoraggiarli nel loro cammino di fede. Naturalmente ogni diocesi segue propri criteri. Nella mia diocesi si tengono corsi di formazione per laici adulti e campi estivi per universitari e bambini. Ogni parrocchia ha questo tipo di attività, e ne portiamo avanti anche alcune a livello diocesano. Quest’estate, circa 300 bambini hanno frequentato le classi dei corsi estivi diocesani. E poi teniamo anche percorsi di formazione permanente e ritiri per preti e per suore. Questa è l’ordinarietà del nostro lavoro pastorale».

 

Il governo cinese la riconosce come vescovo, e la sua nomina e ordinazione episcopale è avvenuta con il pieno consenso della Santa Sede. Come vive concretamente, pubblicamente e interiormente la comunione gerarchica con il Papa?

(Sorride). «Nell’attuale fase della storia cinese tante cose sono cambiate e stanno ancora cambiando. Vent’anni fa non potevamo pregare pubblicamente per il Papa. Non potevamo citare la comunione con il Papa in nessun testo, in nessuna formula. Ora è tutto è cambiato. In ogni messa, adesso, preghiamo per Papa Francesco. E ricantiamo addirittura gli inni per il Papa, quelli che fuori dalla Cina non si usano più (inizia a intonare un canto dedicato al Papa, ndr)».

 

Per il Papa cantate e pregate soltanto?

«Non solo. Seguiamo il suo magistero. Nei gruppi WeChat (il social network più usato dai cinesi, ndr) si pubblicano ogni giorno le omelie di Santa Marta, le udienze del mercoledì, e noi riportiamo le parole del Papa nelle nostre omelie… Adesso, in moltissime occasioni si parla di quello che il Papa fa e dice… Cosa c’è di così diverso da quello che accade nelle chiese cattoliche fuori dalla Cina? La condivisione della stessa fede abbraccia anche la comunione con il Papa». (Mi mostra sul suo cellulare le ultime omelie del Papa in Colombia, scaricate da WeChat).

 

Può indicare iniziative pastorali che avete vissuto nelle vostre Chiese in cui è evidente che seguite il magistero del Papa, e anche le sue sollecitazioni pastorali?

«Ma noi lo seguiamo in tutto. Abbiamo celebrato dovunque con intensità l’Anno paolino, indetto da Papa Benedetto XVI tra il 2008 e il 2009. E lo stesso è accaduto con l’Anno Santo della misericordia convocato da Papa Francesco. Abbiamo cercato di tener conto di tutte le cose suggerite da Papa Francesco in quell’anno. Tutti sono stati contenti di compiere un cammino di preghiera e riconciliazione. Anche nei tempi «ordinari», i sacerdoti comunicano sempre ai fedeli le intenzioni di preghiera del Papa. Così, ogni mese, i fedeli sanno come pregare per il Papa, secondo le sue intenzioni».

 

Ci sono ambienti che ancora parlano dei vescovi cattolici cinesi riconosciuti dal governo come dei rappresentanti di una Chiesa scismatica, sottomessa al potere politico. O li dileggiano come vigliacchi o opportunisti. Come vivete la continua pressione di chi vi chiede a ogni passo di dare prove della vostra «ortodossia»?

«Abbiamo sentito che di noi sono state dette cose non vere. Io mi chiedo, e chiedo agli altri: ma se noi avessimo deciso di opporci al governo e alle sue richieste, come alcuni avrebbero voluto, adesso in Cina ci sarebbe ancora la Chiesa una, santa cattolica e apostolica, che confessa pubblicamente il nome di Cristo, come accade in tutto il mondo? Da tanto tempo abbiamo compreso che in Cina, per portare avanti le cose, conviene e a volte bisogna distinguere tra le questioni ecclesiali, di fede, e questioni economiche e amministrative, che di per sè non toccano il deposito della fede».

In Cina c’è ancora qualcuno che vuole costruire una Chiesa cattolica indipendente, separata dalla Chiesa cattolica universale? 

(Sorride di nuovo). «Noi siamo i tralci attaccati alla vite. Siamo le membra unite al capo, di cui parlano Gesù e San Paolo. Nessuno di noi ha mai pensato di separarsi o distinguersi dalla Chiesa universale, o di seguire strade diverse da quella su cui cammina la Chiesa universale. E questo vale per noi, per i vescovi cinesi prima di noi, e per quelli che verranno dopo di noi».

 

Come successori degli apostoli, quali criteri seguite nel rapporto con le autorità politiche civili? 

«Siamo persone di Cristo, e Cristo ci chiama all’amore e alla misericordia. Possiamo forse chiuderci al dialogo e scontrarci sempre con il governo, come certi ci chiedono di fare? Il nostro primo desiderio è vivere secondo il Vangelo, confessando la fede in Cristo. E mi chiedo se in Cina potremmo mai seguire questa strada dovunque, se scegliessimo di contrastare e respingere le disposizioni del governo. Il Vangelo non ci chiede di assumere il ruolo di antagonisti delle autorità costituite. E Gesù dice che dobbiamo essere astuti come serpenti e semplici come colombe. Io credo che adesso, in Cina, il dialogo e la riconciliazione sono le cose più importanti. E non dobbiamo dare troppo peso alle accuse malevole che ci arrivano dall’esterno».

 

La voce dei vescovi cinesi riconosciuti dal governo non si ritrova nella stampa occidentale, e neanche nelle agenzie specializzate sulle Chiese dell’Asia.

«Ci siamo accorti che, all’estero, la nostra voce non arriva. Mentre vengono amplificate quelle di altri personaggi che, da fuori, si fanno passare come se fossero i portavoce del cattolicesimo cinese. Ma quelli ma non esprimono la vera realtà della Chiesa in Cina. Spero che crescano le occasioni di far ascoltare anche la nostra voce, anche nei contesti internazionali».

 

Lei ha avuto occasione di parlare all’incontro di Sant’Egidio, che quest’anno è stato ospitato dalle diocesi tedesche di Münster e a Osnabrück.

«Nei giorni passati a Münster e a Osnabrück, abbiamo avuto la conferma che con la globalizzazione, per certi versi, il mondo è diventato come un unico villaggio. Le distanze si sono accorciate. E può essere bello godere dei diversi colori che si trovano in questo giardino. La tradizione e la cultura cinese è in grado di rispettare le differenze, valorizzando le cose che abbiamo in comune. E la Chiesa che è in Cina ha proposto per prima la via della convivenza armoniosa con le religioni. La Chiesa cattolica in Cina riconosce che c’è una vita condivisa, e ognuno è chiamato a fare bene il proprio dovere. In questo mondo comune, la Chiesa in Cina è chiamata ad amare il Signore e ad amare il popolo cinese. Occorre portare nella ricchissima cultura cinese il seme del Vangelo, che non appartiene a un solo popolo e per sua natura può incontrare in maniera feconda ogni lingua, ogni nazione, ogni Continente».

 

Il Papa chiede che i pastori servano il popolo di Dio e non siano carrieristi. Ci sono fenomeni di carrierismo nella Chiesa di Cina?

«Sì, certo che ci sono carrieristi anche da noi. Ci sono preti che danno mostra di investire energie e anche risorse per la diffusione della fede e per il bene della Chiesa, ma in realtà mirano solo al proprio prestigio, a accrescere la loro reputazione, a inseguire quelli che vedono come successi. D’altro canto, non serve etichettare le persone solo per il gusto di giudicare il prossimo. Dobbiamo sostenere il lavoro dei sacerdoti, e vigilare perché non si facciano prendere da queste frenesie. Parliamo anche di queste cose, negli incontri coi sacerdoti».

 

Voi e i vostri fedeli cosa sperate possa venire dal dialogo tra Cina e Santa Sede? E quale contributo potete offrire affinchè questo dialogo aiuti a sciogliere nodi reali?

«Esistono due piani distinti: quello che riguarda il rapporto tra due Stati, e quello che tocca il legame tra la nostra Chiesa e la Santa Sede. Riguardo al primo aspetto, noi non possiamo avere nessun ruolo, visto che non rappresentiamo lo Stato, o il governo cinese. Possiamo solo pregare che anche a quel livello il governo e la Santa Sede possano conoscersi, avvicinarsi e comprendere i benefici che da quel dialogo possono venire, a vantaggio di tutti».

 

E invece rispetto al piano dei legami con la Santa Sede, cosa potete fare?

«La questione dei rapporti tra Vaticano e governo cinese ci sta a cuore come membra della Chiesa universale. Se migliorano e si consolidano i rapporti tra la Cina e la Santa Sede, possiamo sperare di vedere risolti col tempo anche tanti problemi che toccano la Chiesa in Cina. Perché soltanto passando per questo dialogo tra governo e Santa Sede si possono mitigare e superare con pazienza gli effetti della dolorosa divisione tra le comunità ecclesiali ufficiali e quelle cosiddette «sotterranee»».

 

Cosa le dà fiducia che questo possa avvenire? 

«Come ho detto, tante cose sono già cambiate negli ultimi anni. Adesso, anche il governo si è fatto carico di questa vicenda con una certa serietà. In Cina vediamo che anche Papa Francesco esprime la sincera volontà della Santa Sede di andare avanti nel dialogo. Insomma, c’è una situazione propizia. E questo alimenta la speranza. Attendiamo che tale occasione propizia maturi e porti frutto. E spero tanto che anche in Vaticano si ricordino che a Oriente c’è un Paese così grande, come una «grande pecora» del gregge, che non può essere trascurata o abbandonata».

 

E voi come potere favorire questo cammino? 

«Credo che noi non dobbiamo pretendere di intervenire in questioni di cui non siamo competenti. Sappiamo che ci sono tante cose complicate da affrontare. Ma possiamo dare il nostro contributo in un modo molto semplice: lavorando con sollecitudine per il bene della nostra Chiesa. E mostrando anche al governo che la Chiesa cinese è armoniosa e può promuovere il bene comune nella nostra società. Questo è ciò che noi possiamo fare».

 

Ma Lei, come vescovo riconosciuto dal governo, come considera i cattolici delle comunità cosiddette «sotterranee»? Sono dei fratelli e dei «nemici»?

«Non ho mai lanciato condanne contro i cattolici «sotterranei». Siamo tutti fratelli, nell’unica Chiesa. Ci sono problemi e ferite, ma non c’è una rottura della fraternità».

Quale parola, quale frase vorrebbe dire al Papa per fargli capire la realtà della Chiesa che è in Cina? 

«Auguro a Papa buona salute, perché la Chiesa in Cina ha bisogno anche della sua guida di pastore. Gli direi: pensiamo a te ogni giorno, e speriamo che anche tu ti ricordi di noi nella preghiera».

Gianni Valente – VaticanInsider

| © vaticanmedia
3 Ottobre 2017 | 12:20
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