Internazionale

Sacerdote e youtuber per raccontare Dio ai giovani

Tutto è cominciato quasi per gioco. Busto Arsizio, nord della Lombardia, pochi chilometri dal Ticino, la cittadina del vescovo emerito di Lugano, Pier Giacomo Grampa. Durante la pandemia anche don Alberto Ravagnani, sacerdote classe 1993 della parrocchia di San Michele Arcangelo, è bloccato a casa. Decide così di raggiungere gli adolescenti dell’oratorio tramite i social network. Pubblica su YouTube dei monologhi dallo stile accattivante e li diffonde con Facebook e Instagram. Parla di fede e vita, e in breve diventa una celebrità: il video «A cosa serve pregare?» supera il mezzo milione di visualizzazioni. Negli ultimi giorni ha persino intavolato un dibattito virtuale con il rapper Fedez (vedi sotto ), che in una canzone critica la Chiesa per lo scandalo degli abusi: «Siamo riusciti a gettare un ponte di comunicazione fuori dagli schemi tra due mondi», dirà poi don Alberto. In effetti costruire ponti, soprattutto con i giovanissimi, sembra la sua specialità. Lo incontriamo nell’ambito delle riprese di una puntata di «Strada Regina» che andrà in onda dopo l’estate, in cui don Alberto si racconterà a tutto tondo. Intanto l’occasione è propizia per una riflessione in chiave educativa su questa estate così strana, dopo che la pandemia ha lasciato il segno anche nelle comunità cristiane. Il don si presenta come nei video: camicia nera con clergy allacciato, ciuffo curato, occhiali un po’ vintage. Ma si capisce che nella vita di tutti i giorni è una persona riservata, quasi schiva. A fine giugno è iniziato l’oratorio estivo, con i bambini divisi in gruppi e tutte le precauzioni sanitarie. Gli animatori lo prendono in giro: «Un’altra intervista, ormai sei famoso!». Lui si schermisce e comincia a dialogare.

Don Alberto, com’è l’estate in oratorio in tempo di coronavirus? «L’arcivescovo di Milano l’ha definita una stagione inedita, e ha ragione. Di solito la proposta del «Grest» coinvolge circa 400 ragazzi, quest’anno gli iscritti sono solo 40. Abbiamo cercato comunque di garantire un’esperienza valida, educativa e oratoriana. I risultati dei primi giorni sono positivi in particolare per la risposta degli educatori adolescenti. Sono chiamati a più responsabilità e attenzione: stanno crescendo di giorno in giorno, e questo gli fa onore ».

Proprio gli adolescenti, a cui lei rivolge i suoi video, hanno sofferto molto il lockdown. «È così, infatti vogliono tornare a una vita di relazioni fatta di sguardi, di contatti, di abbracci. Qualcuno può scambiare questo desiderio per un’insofferenza verso le regole del distanziamento sociale. È fondamentale che anche gli adolescenti rispettino le norme ma nel confronto con loro bisogna ricordarsi che, per il periodo di crescita che stanno attraversando, i mesi scorsi sono stati particolarmente difficili».

Quali segnali percepisce invece dai bambini? «Sono lo specchio di quello che accade nelle famiglie. In generale, nelle ultime settimane, ho visto pochi bambini a messa: segno che molti genitori sono ancora preoccupati dalla situazione sanitaria. Vorrei però anche sottolineare come tanti adulti si siano messi in gioco per consentire alla comunità di ripartire. C’è chi dà una mano all’oratorio, chi fa servizio durante le messe, chi segue le varie attività: gli adulti oggi sono fondamentali per le nostre parrocchie, a loro dobbiamo tanta gratitudine».

Le norme sanitarie si sono allentate, ma molte chiese restano semivuote. Una conseguenza del virus potrebbe essere un calo di chi pratica? «Probabilmente sì, almeno finché l’emergenza non sarà completamente rientrata. Ma dobbiamo ricordarci che ogni crisi non è soltanto negativa, anzi può essere occasione per riscoprire le ragioni della nostra fede. Se la crisi inizialmente ci può indebolire, dobbiamo lavorare come Chiesa per uscirne rafforzati sul lungo periodo».

Dopo la pandemia vivremo il rapporto con gli altri in modo diverso? «Questa esperienza ci ha insegnato che la relazione non è un concetto astratto, anzi: c’è quasi un «peso specifico» nell’incontro tra persone, una dimensione fisica che anche nella società digitale non si può perdere. Quando siamo stati costretti a mettere distanza tra noi e gli altri, ci siamo resi conto che i nostri legami sono profondamente concreti ».

Lei è un esperto di comunicazione: in questo tempo, cosa è importante comunicare? «C’è bisogno di dare senso a quello che sta capitando, di non far cadere tutto nell’assurdità. Soprattutto bisogna ascoltare la paura di molti: sono sentimenti da prendere sul serio perché lì dentro si nascondono delle tracce di bene. Perché il bene emerga, però, non bisogna lasciare le situazioni più difficili al vuoto dell’insensatezza. Più che comunicare, allora, la priorità oggi è ascoltare e interpretare ciò che stiamo vivendo, come singoli e come società ».

Gioele Anni

La Chiesa può cambiare? Il dibattito tra Fedez e don Alberto

14 Luglio 2020 | 07:40
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