«Raqqa è caduta, ma non sappiamo dov’è padre Dall’Oglio»

Il gesuita romano Paolo Dall’Oglio è scomparso mentre si trovava a Raqqa, che poi divenne la «capitale» in Siria del sedicente Stato Islamico. Lì, il 28 luglio 2013, sono state registrate le sue ultime immagini e le sue ultime parole in libertà. Ora la Raqqa jihadista è caduta, di Paolo non si è trovata traccia, e cominciano a circolare di nuovo voci incontrollate intorno alla sua sorte. Padre Jacques Murad, insieme ai fratelli e alle sorelle di Dei Mar Musa – la comunità monastica fondata da padre Paolo – vivono questo tempo di incertezza e trepidazione con la pace degli uomini e delle donne di Cristo. Siriano, monaco della comunità di Deir Mar Musa, padre Jacques nel maggio 2015 era stato anche lui sequestrato dai jihadisti di Daesh, che lo avevano prelevato dal monastero di Mar Elian, nella città siriana di Qaryatayn, tenendolo segregato per mesi, per poi riportarlo nella stessa Qaryatayn, dopo averla conquistata, insieme ad altre centinaia di cristiani che come lui avevano sottoscritto con lo Stato Islamico il cosiddetto «Contratto di protezione».

 

Da quando Raqqa non è più in mano a Daesh, avete notizie di padre Paolo Dall’Oglio?

«Io ho sempre avuto la speranza che la caduta della roccaforte di Raqqa ci avrebbe permesso di sapere qualcosa di più su di lui. E adesso abbiamo chiesto anche a francesi e statunitensi di farci sapere se si può fare qualcosa per cercarlo. Ma finora non ci è arrivata nessuna notizia. Io mantengo la speranza che magari, in questa fase caotica, anche Paolo possa essere inserito in qualche scambio di prigionieri».

 

Cosa dice delle nuove illazioni circolate sulla sua sorte, secondo le quali sarebbe stato ucciso nel 2013 ?

«Non è la prima volta che qualcuno mette in giro voci sulla sua morte, e ogni volta dicono cose completamente diverse. Per quale motivo l’ultima versione dovrebbe essere più credibile delle precedenti? Non portano mai dati e elementi concreti. E noi continuiamo a sperare e a pregare».

 

Che notizie avete di quello che sta succedendo in quell’area ?

«È caduta Raqqa, e adesso è caduta anche Deir el Zor. Tutti i jihadisti, sia dalla Siria che dall’Iraq, si stanno concentrando in alcune zone di frontiera tra i due Paesi e in aree desertiche, utilizzando corridoi umanitari che vengono messi a loro disposizione e che loro attraversano con la garanzia di non essere attaccati. È una cosa che mi appare strana. E non so come andrà a finire. Lì si sono diretti anche i jihadisti che ad ottobre avevano ri-occupato un’altra volta Qaryatayn, la città siriana dove vivevo e dove i jihadisti, nel 2015, avevano sequestrato anche me, prelevandomi dal monastero di Mar Elian».

 

Ha notizie di cosa è successo a Qaryatayn nelle ultime settimane?

«A Qaryatayn proprio ad ottobre c’è stato un massacro terribile. L’esercito siriano aveva ripreso la città nell’aprile 2016. La scorsa estate le autorità governative avevano dato alla popolazione fuggita il permesso di tornare in città. Tanti si erano messi a riparare le case, sembrava tutto tranquillo. In città c’erano ormai tra le 8mila e le 10mila persone. Poi, all’improvviso, ad inizio ottobre, sono tornati i jihadisti».

 

E cosa è successo?

«Hanno massacrato almeno duecento civili, musulmani sunniti che non accettavano le regole di Daesh e che erano considerati traditori, schierati con le forze del governo. Poi hanno preso anche una trentina di ragazzini, tra gli 8 e i 15 anni, li hanno portati con sé, quando si sono ritirati verso il deserto della Badiya».

 

C’erano anche cristiani?

«Di cristiani ne erano tornati una trentina, e anche due di loro sono stati uccisi a ottobre da Daesh. Un militare cristiano era tornato a Qaryatayn insieme ai suoi genitori, qualche giorno prima che arrivassero anche i jihadisti. Quelli, se lo avessero trovato, lo avrebbero di certo ucciso. Ma i vicini musulmani hanno nascosto nella propria casa il soldato cristiano e i suoi genitori fino a quando i jihadisti sono stati di nuovo espulsi. Anche questa vicenda mostra qual è la realtà dei musulmani siriani: ammazzati dai jihadisti e pronti a rischiare anche per proteggere i cristiani».

 

Qual è l’impatto di tutto questo sulla popolazione civile?

«Adesso tutto il popolo di Qaryatayn è amareggiato. Quelli che ancora stavano fuori adesso non vogliono tornare. Intuiscono che nessuna delle forze in campo è sincera e persegue davvero la pace. Per questo tutti vogliono scappare. Per riuscire a custodire almeno un poco di speranza. Ma io anche in Libano ho visto cose tremende».

 

A cosa si riferisce?

«Ci sono forze paramilitari, come Fuhud al-Jabal, che vanno nelle zone dove stanno i rifugiati siriani e commettono violenze per costringerli ad andar via. Ci sono pratiche di tortura. Ed i partiti politici sono allineati sull’idea di espellere in ogni modo i rifugiati siriani».

 

Anche alcune autorità ecclesiastiche ripetono che la pressione del numero eccessivo dei profughi siriani sta facendo affondare il Paese…

«Questa è solo una parte della realtà. Tanti siriani sono in Libano da molti anni, ma se in Siria non si arriva ad una soluzione e non si ottengono certe garanzie, loro non possono tornare. Sono scappati come disertori e tornare in Siria per loro equivale a rischiare la vita».

 

Lei adesso vive nel Kurdistan iracheno, nella comunità di Deir Mar Musa che c’è a Sulaymaniyah. Come vanno lì le cose?

«Abbiamo assistito per tanto tempo delle comunità di rifugiati che venivano da Qaraqosh, da dove erano fuggite nell’estate 2014 davanti all’avanzata dei jihadisti. Adesso, molti di loro stanno ritornando alle proprie case, e accogliamo tanti cristiani fuggiti da Mosul che attendono di veder tornare la normalità nella loro città».

 

Anche lì, dopo il referendum per l’indipendenza del Kurdistan, ci sono stati venti di guerra tra Baghdad e il governo curdo della Regione autonoma…

«Le identità etniche e quelle religiose vengono sempre sfruttate da chi vuole fare guerre. Spero che prevalga la mediazione politica e si mettano da parte le armi. E considero saggia la mossa dei curdi di ritirarsi da Kirkuk e lasciare che in quella regione si ridisponessero le truppe dell’esercito governativo. I curdi hanno diritto ad uno Stato. Ma si deve raggiungere quell’obiettivo attraverso trattative politiche, raggiungendo un accordo internazionale e non puntando su iniziative unilaterali».

Gianni Valente – VaticanInsider

7 Novembre 2017 | 07:00
Tempo di lettura: ca. 4 min.
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