Internazionale

Profughi siriani in Libano: vite in bilico tra respingimenti e diritti violati

In Libano è un piccolo Paese con circa 6 milioni di abitanti. Lo scoppio della guerra in Siria, nel 2011, ha alimentato un crescente afflusso di profughi. Fino al 2014, l’apertura delle frontiere ha permesso ad oltre 1,5 milioni di siriani di entrare in Libano. Ma negli ultimi mesi, il governo di Beirut ha cambiato la propria politica adottando strategie di respingimento «dirette e indirette, volte a far tornare i profughi siriani nel loro Paese», in base al «presupposto non provato» che la Siria è ora «uno Stato sicuro» in cui poter tornare. A denunciare questa inversione di rotta è la Comunità Papa Giovanni XXIII con un dossier intitolato «Ritorno in Siria: uccidere o essere uccisi».

Violazioni dei diritti umani

Ad essere violato è in particolare un principio, sancito dall’articolo 3 della «Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti», di cui il Libano è firmatario: «nessuno Stato espelle, respinge né estrada una persona verso un altro Paese qualora vi siano serie ragioni di credere che in tale Stato essa rischia di essere sottoposta a tortura». Nel dossier della Comunità Papa Giovanni XXIII si sottolinea che in realtà tale principio di non-refoulement, ovvero di non respingimento, è violato con molteplici azioni compiute dall’esercito e dalle forze di sicurezza libanesi. Tra queste, «un aumento esponenziale delle deportazioni forzate, la distruzione di case e campi profughi informali siriani, sfratti di massa, l’inasprimento delle misure contro i lavoratori non autorizzati, la limitazione della possibilità per i bambini siriani di ottenere un permesso di soggiorno».

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26 Luglio 2019 | 12:10
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