Commento

Padre Sosa: «L’ autosufficienza è l’idolo del nostro tempo»

Il 14 ottobre scorso padre Arturo Sosa Abascal, venezuelano, è stato eletto Preposito Generale della Compagnia di Gesù. Trentesimo successore di sant’Ignazio di Loyola, il primo non europeo, ha 68 anni, è laureato in teologia e filosofia e ha conseguito il dottorato in Scienze politiche: nel suo paese è stato docente universitario, rettore dell’università cattolica di Táchira e direttore di Gumilla, il centro di ricerche e azione sociale della Compagnia di Gesù. Dopo aver guidato (dal 1998 al 2004) i gesuiti venezuelani in qualità di superiore provinciale, è stato nominato consigliere del padre Generale, e nel 2014, delegato per le case e le opere interprovinciali della Compagnia a Roma.

Lo abbiamo incontrato per rivolgergli alcune domande in merito al suo nuovo incarico e a questo passaggio d’epoca.

Quali sentimenti hanno accompagnato questi primi mesi di lavoro alla guida dei gesuiti?

«Anzitutto il desiderio di conoscere in modo approfondito la Compagnia nel suo insieme e il servizio che essa offre al mondo e alla Chiesa: la conoscenza capillare che sto acquisendo è indispensabile per svolgere l’incarico affidatomi. Inoltre, sento viva in me la responsabilità di dare attuazione al risultato del discernimento compiuto durante la congregazione generale. Esso ci orienta in una direzione precisa che ho indicato nella mia prima omelia dopo l’elezione: offrire il nostro contributo a quanto oggi sembra impossibile: un’umanità riconciliata nella giustizia, che vive in pace in una casa comune ben curata, dove c’è posto per tutti».

Papa Francesco, intervenuto alla riunione della vostra 36esima congregazione generale, diceva: «la Chiesa conta su di voi, e continua a rivolgersi a voi con fiducia, in particolare per raggiungere quei luoghi fisici e spirituali dove altri non arrivano o hanno difficoltà ad arrivare». Quali sono i luoghi ai quali comprendete di essere destinati?

«I luoghi fisici sono quelli geograficamente più lontani e difficili da raggiungere, dove la Chiesa non è ancora presente o lo è con piccole comunità che hanno bisogno di sostegno. Vi sono poi quelle che papa Francesco chiama «periferie», ed esse si trovano in tutto il mondo: sono i luoghi nei quali si concentrano disagio, povertà, abbandono, emarginazione, avvilimento dell’umano. Vi sono, infine, i luoghi del sapere nei quali si elabora il pensiero che orienta e plasma le società, e che noi possiamo contribuire a illuminare con l’annuncio del Vangelo».

Nell’omelia pronunciata dopo la sua elezione, lei affermava che occorre «una straordinaria profondità intellettuale per pensare creativamente i modi attraverso i quali il nostro servizio alla missione del Cristo Gesù può essere più efficace». Perché ha voluto evidenziare il carattere imprescindibile della profondità intellettuale? 

«Perché essa è il contributo che la Compagnia non può non dare alla Chiesa e al mondo. Sin dalle origini i gesuiti hanno coltivato, insieme alla profondità spirituale, quella intellettuale. Noi gesuiti ci dedichiamo allo studio in molti ambiti del sapere non per conseguire titoli prestigiosi ma perché convinti di essere chiamati a offrire pensieri buoni, capaci di sostenere con intelligenza la missione della Chiesa, pensieri che permettano di incidere sulla cultura e di meglio comprendere il tempo in cui vivono gli uomini e donne destinatari dell’annuncio del Signore».

Quali peculiarità deve possedere il discernimento per essere veramente tale? 

«Il discernimento è un processo bello e complesso, che coinvolge completamente la vita della persona e non va confuso con il semplice pensare e rimuginare tra sé e sé prima di prendere delle decisioni. Il punto cruciale del discernimento – cardine non solo della spiritualità ignaziana ma dell’intera vita della Chiesa – è come ascoltare lo Spirito Santo. Per poterlo ascoltare vi sono alcune condizioni che sintetizzo brevemente: anzitutto bisogna credere che Dio si comunica a noi e che si comunica attraverso lo Spirito: questa fede permette di porsi nell’atteggiamento necessario all’ascolto. La seconda condizione è saper capire il linguaggio dello Spirito: ciò nasce dalla preghiera, vissuta non come momento occasionale, ma come dimensione permanente dell’esistenza. Gesù nei Vangeli è un uomo che prega, che si mette in ascolto del Padre e prende le decisioni nell’intimità di questo rapporto».

E la terza condizione?

«È imparare a sentire dentro di sé i movimenti dello Spirito. Affinché ciò accada occorre libertà interiore, ossia il non attaccamento alle proprie idee o a quelle del gruppo cui si appartiene. E poi bisogna capire quali sono i segni: il Concilio Vaticano II ha parlato dei «segni dei tempi», ossia i segni del passaggio di Dio nella storia di ciascuno e dell’umanità. Questa lettura non è facile, è necessaria grande attenzione a ciò che accade nel proprio intimo e nella comunità: papa Francesco parla sovente di discernimento comune perché esso non riguarda solo il singolo, ma anche la Chiesa come corpo di Cristo».

Che spazio ha in questo processo la familiarità con i Vangeli, cui ripetutamente invita papa Francesco?

«Essa occupa il posto centrale: la raccomandazione di sant’Ignazio è quella di contemplare nella preghiera le scene dei Vangeli, la persona di Gesù e assimilare i Suoi sentimenti e il Suo stile».

C’è un passo dei Vangeli che le è particolarmente caro? 

«Nella mia vita i Vangeli continuano a essere una fonte di ispirazione permanente. La mia preferenza cade sull’intero Vangelo di Giovanni, al quale sono molto affezionato: è una sorgente inesauribile, cui spesso ricorro».

Nella prima omelia dopo l’elezione, lei ha anche dichiarato che «la Compagnia di Gesù potrà svilupparsi soltanto in collaborazione con altri, soltanto se diventa la minima Compagnia collaboratrice». E precisava che il proposito è «aumentare la collaborazione, non soltanto cercare altri che collaborino con noi, con le nostre opere perché non vogliamo perdere il prestigio della posizione di chi ha l’ultima parola». Perché ha sottolineato questo aspetto? 

«Quando parliamo della «nostra missione», noi gesuiti possiamo correre il rischio di dimenticare che essa non è solo nostra, ma della Chiesa intera. Quella di annunciare il Vangelo a tutte le genti è infatti una responsabilità affidata dal Signore a coloro che lo seguono. Dunque la collaborazione è fondamentale: noi la pratichiamo già in molti paesi del mondo; nel mio intervento ho voluto sottolinearne la rilevanza. L’espressione «minima Compagnia», coniata da Sant’Ignazio, allude al riconoscersi piccola porzione della Chiesa che è impegnata nell’annuncio. E nell’opera di rendere più umano e giusto il mondo».

Quale ritiene sia l’idolo più pericoloso dell’Occidente contemporaneo?

«L’autosufficienza, l’idea di sapere e dovere fare da soli, sia come singoli individui che come società. L’Occidente è convinto di poter raggiungere da sé la felicità, la pienezza dell’umano, prescindendo dagli altri. Per questa ragione erige muri anziché ponti, e cerca di isolarsi, di chiudersi in se stesso. Questo atteggiamento è un pericolo grande. La persuasione di essere in grado di costruire l’umano in completa autonomia, senza aver bisogno di imparare e ricevere dagli altri, conduce a non rispettare popoli e culture differenti, né il creato, che è la casa comune. L’autosufficienza chiude la possibilità del dialogo interculturale e interreligioso e sbarra la strada anche al futuro. Essa è un idolo che isola e finisce per paralizzare».

Questo idolo sta seducendo anche il resto del mondo?

«La globalizzazione in atto induce a pensarlo, poiché essa si caratterizza come globalizzazione di un solo stile di vita dettato dai ricchi paesi occidentali, una omogeneizzazione che annulla le differenze e impone un pensiero unico. Il destino di questo fenomeno è l’impoverimento dell’umano. Ma questo processo non è irreversibile, può prendere anche un’altra direzione: possiamo orientarci verso una globalizzazione che si fondi sulla diversità come ricchezza e come caratteristica peculiare dell’umanità e del creato, una diversità da preservare, coltivare e cui attingere per costruire un futuro più buono e giusto per tutti».

Qual è la malattia più grave del continente europeo e di cui si ha minore consapevolezza? 

«La malattia più pericolosa, anche perché meno riconosciuta, è proprio l’autosufficienza. Essa provoca paradossi di cui neppure ci si rende conto. Pensiamo al tema dei migranti. Tutti i paesi europei sanno, sul piano teorico, che per poter mantenere il loro stile di vita, i loro livelli produttivi hanno bisogno di giovani che siano in grado di svolgere i lavori richiesti dal mercato; tuttavia, pur consapevoli di questa necessità, chiudono le porte ai migranti che, con il loro lavoro, contribuiscono a migliorare la vita non solo delle loro famiglie ma di tutta la società europea. Questo paradosso che attraversa l’intera Europa spesso si nasconde sotto le maschere del nazionalismo o della paura del diverso».

L’Anno della misericordia e il magistero di papa Francesco hanno disegnato il volto e indicato l’urgenza di una civiltà della compassione. Quali sono i primi mattoni per edificarla? 

«Il primo, essenziale, è riconoscere la debolezza umana – quella personale, quella collettiva e anche quella della Chiesa – e il bisogno di perdono. Il secondo mattone, parimenti fondamentale, è iniziare a essere misericordiosi. Gesù ha detto: «Se tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt, 5,23-24). Quando si domanda al Signore di essere perdonati bisogna essere disposti a usare misericordia verso i fratelli».

Pensando alla sua vita, chi desidera maggiormente ringraziare?

«Penso in particolare a due gruppi di persone, dai quali ho ricevuto moltissimo: il primo è la mia grande famiglia (ho cinque fratelli), nella quale, ad esempio, ho imparato a essere sensibile agli altri e ai loro problemi e a ringraziare per quanto ricevuto ogni giorno, incluse le piccole cose. E poi c’è la Compagnia di Gesù, verso la quale nutro una gratitudine profonda. Sono entrato nel collegio dei gesuiti di Caracas a 5 anni e ne sono uscito a 18; poi, per i successivi 50 anni, ho vissuto insieme ai gesuiti. È alla mia famiglia e alla Compagnia che io debbo tutto ciò che sono oggi».

Le giovani generazioni si trovano a vivere in un contesto culturale che nobilita il farsi da sé e per sé, senza vincoli né debiti con alcuno, un contesto che fa dell’autosufficienza un idolo, come lei diceva poc’anzi. Qual è il primo passo per ridare slancio alla gratitudine?

«Bisogna dare l’esempio, anzitutto in famiglia, perché proprio lì si comincia a imparare a rendere grazie: un adulto che fa memoria di quanto ricevuto dagli altri e da Dio (a cominciare dalla vita stessa), che mostra di non essere e non sentirsi autosufficiente, che riconosce di ricevere non per merito proprio ma per la generosità degli altri e di Dio, offre ai ragazzi un esempio insostituibile. Li abitua a considerare la gratitudine una dimensione costitutiva dell’esistenza».

Quali sono le forme di povertà spirituale più invisibili? 

«Ve ne sono molte. Penso che il segno distintivo che le accomuna sia, ancora una volta, l’autosufficienza, il riporre fiducia esclusivamente in se stessi senza confidare negli altri e in Dio. L’egoismo, il superbo ripiegamento su di sé, la messa in disparte degli altri e di Dio sono, a mio parere, tratti peculiari della povertà spirituale più grande».

 

20 Marzo 2017 | 12:00
Tempo di lettura: ca. 7 min.
gesuiti (18)
Condividere questo articolo!