Chiesa

Padre Sidotti, il martire che spiegò l’Occidente ai giapponesi

«Il cadavere di Sidotti fu avvolto in una stuoia, portato fuori dalla cella sotterranea e sepolto a fianco del cancello posteriore. Non venne seppellito in uno dei templi buddhisti vicini, come gli altri prigionieri morti nella Residenza. La ragione è che fu l’unico padre vissuto nella Residenza dei cristiani a non aver abiurato e ad aver portato a termine la propria esistenza da cristiano. Sopra la sua salma fu piantato un albero di bagolaro al posto di un segno tombale». Mentre avveniva tutto questo, nel novembre 1714, a Roma Papa Clemente XI credeva che il sacerdote palermitano avesse la possibilità di svolgere la sua attività di missionario, e aveva appena spedito una lettera che il destinatario non avrebbe mai letto, nella quale si affermava: «Con la presente si autorizza a che nove missionari vengano inviati in Giappone e messi sotto il vostro comando per collaborare e sostenere la promettente evangelizzazione del Giappone, portato alla riapertura dalla vostra personalità e passione. Inoltre, come prescritto dai documenti allegati all’editto del Pontefice, siete nominato padre provinciale del Giappone, dotato di vasta autorità. Si aspettano da voi risultati equivalenti a quelli di san Francesco Saverio, il grande predecessore che contribuì all’avvio dell’evangelizzazione in Giappone».

 

È appassionante la lettura del libro della studiosa giapponese Tomoko Furui «L’ultimo missionario» (Edizioni Terra Santa), che viene presentato a Milano il pomeriggio di giovedì 12 ottobre. Un testo che, sulla base di accurate ricerche documentali, restituisce l’eccezionale figura di questo missionario italiano, del quale ora si è aperto il processo di beatificazione. L’abate Giovanni Battista Sidotti (o Sidoti, come si firmava, anche se oggi viene preferita l’altra grafia) nato a Palermo nel 1668 e morto di stenti, prigioniero, a Tokyo il 27 novembre 1714, è un personaggio ancora poco conosciuto. Da giovane sacerdote a servizio nella Curia romana era rimasto colpito dai racconti delle prime missioni dei gesuiti – ordine al quale erroneamente lo si assimila – e aveva chiesto a Papa Clemente XI il permesso di recarsi in Giappone, nel Paese che da quasi un secolo aveva chiuso le porte agli stranieri e prevedeva la pena di morte per chiunque si professasse cristiano o facesse opera di evangelizzazione.

 

Ottenuto l’assenso del Papa, che gli chiede però di far tappa a Manila prima di tentare l’ingresso in Giappone, padre Sidotti arriva nelle Filippine. Dopo quasi un anno di viaggio, arriva a Manila, e qui si ferma per quattro anni, insegnando il catechismo e amministrando i sacramenti, aiutando i poveri. Vive in una piccola stanza di ospedale per assistere i malati ma si dedica con impegno ad apprendere la lingua giapponese, in contatto con viaggiatori usciti da quel Paese.

 

Padre Giovanni Battista, in quel momento quarantenne, si rasa parte del capo come i samurai, indossa il loro abito caratteristico, la spada e i capelli raccolti. S’imbarca su una nave costruita apposta per il suo viaggio. Porta con sé un altare portatile, l’olio santo, il breviario e un’immagine della Madonna del Dito, insieme al crocefisso appartenuto al gesuita Marcello Mastrilli martirizzato in Giappone e alle credenziali che attestano che è mandato dal Papa. Desidera parlare con l’imperatore per chiedergli di aprire i confini del Giappone ai cristiani. Appena sbarcato nell’isola viene immediatamente identificato come uno straniero e per questo fuorilegge, arrestato e trasferito a Tokyo, il cui nome all’epoca era Edo. Qui deve essere processato. Lo shogun incarica di mantenere i contatti con Sidotti un suo uomo di fiducia, di grande cultura, Arai Hakuseki.

 

È l’inizio di una serie di dialoghi che spaziano dalla politica alla geografia, dalla situazione degli altri Paesi del mondo alla fede. Ne nascono dei resoconti, il più importante dei quali, per il Giappone, è certamente «Notizie dell’Occidente» (Seyko Kibun), che diventerà testo fondamentale per capire cosa accade oltre i confini ormai chiusi della grande isola asiatica.

 

Dalle descrizioni che fa Arai Hakuseki emerge la santità dell’abate palermitano, che «Ritagliò una croce usando carta rossa e la incollò alla parete verso ovest. Ai piedi di quella croce recitava le preghiere della sua fede». Al termine del processo, lo shogun decide che padre Sidotti venga tenuto per sempre prigioniero e ordina a due coniugi di servirlo. Sono Chosuke e Haru, un uomo e una donna che hanno già accudito durante la prigionia il gesuita Giuseppe Chiara, diventando suoi catecumeni. Sidotti li battezza, e questo gli provoca una condanna più dura: è gettato in una fossa, un pozzo profondo quattro metri con uno spazio angusto in cui poter stare, con poca luce e poca aria. Muore sei mesi dopo, e la stessa sorte tocca ai due coniugi convertiti.

 

Sidotti non viene costretto all’abiura. I suoi resti sono stati ritrovati in modo fortuito durante alcuni lavori edili nel luglio del 2014 e l’esame del DNA ha confermato l’identità di quei corpi composti in una strana sepoltura.

Andrea Tornielli – VaticanInsider

13 Ottobre 2017 | 08:01
Tempo di lettura: ca. 3 min.
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