Padre Basa, sacerdote caldeo, sul viaggio del Papa in Iraq

Chi lo avrebbe mai pensato? «Oggi il nostro Iraq può diventare un esempio per il dialogo e la pace. E tutto grazie a papa Francesco». Padre Rebwar Basa è un sacerdote cattolico caldeo di 42 anni originario di Erbil, nel nord dell’Iraq. È stato ordinato nel 2004 a Mosul, la città che sarebbe diventata capitale del sedicente Stato Islamico. Poi ha studiato a Bagdad e a Roma. Dal 2018 vive in Germania dove è parroco ad Essen e in altre quattro missioni caldee. La sua comunità, con un’antica liturgia e radici antichissime (alcuni caldei parlano ancora la lingua aramaica, quella di Gesù), conta circa 600mila fedeli nel mondo. A padre Basa sono affidate 1300 famiglie, con cui ha vissuto nella comunione spirituale lo storico viaggio del Papa in Iraq.

Padre Basa, per la prima volta nella storia un Papa ha visitato l’Iraq. Quali le sue emozioni?
Un’emozione grandissima, come quella di un figlio che aspetta per tanto tempo suo padre e finalmente può incontrarlo. È il Papa della fraternità ed è venuto ad abbracciare come un padre misericordioso tutti gli iracheni, che davvero lo hanno accolto come un popolo di fratelli.

Lei ha vissuto questo evento dalla Germania. Perché non è tornato in Iraq?
Speravamo di poter tornare in patria per l’evento, purtroppo con la pandemia non è stato possibile. Per settimane ci siamo preparati con la comunità caldea, riflettendo sulla sull’enciclica «Fratelli tutti» e pregando intensamente.

Chi sono gli iracheni che lei incontra in Europa?
Persone ferite che hanno lasciato la loro terra a causa della povertà e della guerra, ma non perdono la loro fede. Proprio mentre il Papa era in Iraq ho incontrato un uomo che vive in Germania con i suoi sette figli: la moglie era stata uccisa dai fondamentalisti in Iraq, in quel momento ha capito che per dare un futuro alla sua famiglia doveva andarsene. Ci siamo abbracciati e abbiamo guardato le immagini della televisione, è stato commovente.

Anche lei ha conosciuto dei martiri della fede?
Due in particolare: don Ragheed Ganni, parroco della chiesa dello Spirito Santo a Mosul, dove fu ucciso nel 2007 con tre diaconi. E il vescovo Paulos Faraj Rahho, rapito sempre a Mosul nel 2008 e trovato morto poche settimane dopo. Ma potrei citare tante altre persone. I cristiani in Iraq sono sempre stati pronti a dare testimonianza con la vita della propria fede in Cristo. E oggi, con la presenza del Papa, la Chiesa ha regalato a tutto l’Iraq questi giorni di festa e speranza.

Che cosa serve ora all’Iraq per procedere nella via della fratellanza e della pace?
Francesco ha detto di essere venuto come pellegrino e come penitente: tutti dobbiamo sentirci responsabili per la crisi del Paese, così come per le situazioni che si sono create in altri Stati della regione come la Siria o lo Yemen. Il dialogo tra le varie parti coinvolte sarà possibile sulla base di onestà e verità. Rispetto dei diritti umani e libertà religiosa, per tutti, sono le basi per costruire il futuro.
Nel caso specifico dell’Iraq, questo chiederà di intervenire anche su alcune leggi: per esempio quella che stabilisce che i figli nati da padre musulmano e madre cristiana debbano essere cresciuti nella fede islamica. Norme di questo tipo preparano un terreno fertile perché qualcuno senta di poter prevaricare sugli altri.

Papa Francesco ha avuto cura di rivolgersi sempre a tutti gli iracheni, con un’attenzione specifica per tutte le minoranza, non solo cristiane. Perché?
Un passaggio molto importante. Ci sono gruppi che in Iraq vivono addirittura peggio dei cristiani.
Per esempio gli yazidi, che il Papa ha citato più volte nel corso del viaggio. Ero presente qualche anno fa a un’udienza privata di Francesco con il vescovo di Erbil, monsignor Warda, che gli raccontò proprio la situazione degli yazidi. Il Santo Padre rimase molto colpito, e incoraggiò la Chiesa a continuare nell’opera di aiuto e assistenza a queste popolazioni.

In futuro, lei pensa di poter tornare in Iraq?
Purtroppo negli ultimi anni la situazione è cambiata in modo drammatico: nel 2003 c’erano circa un milione e mezzo di cristiani in Iraq, mentre oggi sono intorno ai 300mila. Oggi dall’Iraq arriva un messaggio di rinascita e speranza. Io sono a disposizione della Chiesa, che anche qui in Europa ha tanto bisogno: dove mi sarà chiesto di andare, lo farò con gioia.

di Gioele Anni

13 Marzo 2021 | 12:13
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