Orlando: le armi, un peccato originale USA

L’alba tragica di Orlando in Florida, coi suoi cinquanta morti, non ha cambiato l’ormai consolidata sceneggiatura della liturgia politico-mediatica che segue i «mass shootings» negli Stati Uniti: il breaking news in televisione, lo stillicidio di notizie e commenti sui social media, il discorso del presidente a una nazione ormai mitridatizzata a questo tipo di veleno, l’espressione di condoglianze da parte di una classe politica che utilizza la preghiera per le vittime come diversivo per non affrontare dal punto di vista legislativo la questione della libera circolazione delle armi.

 

È una liturgia che cadeva, dopo il massacro di Orlando, proprio di domenica mattina, a rendere ancora più insopportabile l’ipocrisia di un paese che non vuole dirsi la verità. E non è detto che inizi a dirsi la verità solo perché questa strage al nightclub gay ha battuto tutti i record. L’America non vuole dirsi che c’entrano sia le centinaia di milioni (sic) di armi da fuoco che girano senza veri controlli in America; non vuole dirsi che c’entra l’odio contro gay e lesbiche seminato più dalle chiese che dalle moschee in America; non vuole dirsi che la rabbia espressa dall’elettorato di Trump ha portato ad un clima di paura di alimentare la xenofobia, l’islamofobia e il razzismo che il candidato presidente dei repubblicani porta con orgoglio come il cappello rosso «Make America Great Again».

È un’America in grave crisi politica e civile quella di questa estate pre-elettorale 2016; è un’America che pare non riuscire a contare su se stessa, su una questione come quella delle armi su cui solo gli americani possono trovare una soluzione. Sorprende che l’amor d’America dei neoconservatori di casa nostra e la loro desiderante paura di una nuova versione della guerra dell’Islam all’Occidente abbagli anche quelli che tra di loro l’America la conoscono. Spiace dover polemizzare con «Il Foglio» che (come ho già detto in altre occasioni) capisce l’America profonda meglio di altri. Ma accusare il presidente Obama di tacere sulle radici islamiste della strage nel locale gay di Orlando significa a propria volta tacere sulle radici ancora più profonde di questa violenza endemica.

Da un lato, è indubbio che non si può comprendere l’attacco al locale di Orlando senza considerare l’odio omofobo (come invece hanno fatto i leader repubblicani). Ma la violenza omicida omofoba in America non nasce con la presenza islamica in America o con il rischio infiltrazione da parte di elementi influenzati dall’Islam radicale. Basti vedere i rapporti tra certi elementi delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche e i blogger cattolici omofobi negli Stati Uniti (uno dei quali di recente ha ammesso di aver avuto in passato una relazione omosessuale). Dire che nessun cattolico ha fatto strage di gay e lesbiche in America significa tacere sul clima di violenza verbale e di intimidazione creato attorno a chi nella chiesa cattolica si batte per un nuovo linguaggio sulla questione LGBTQ. Basta chiedere a un gesuita come James Martin (bersagliato quotidianamente da «hate messages»), al giornalista Tony Spence (licenziato dai vescovi americani per aver criticato le leggi sulla libertà religiosa dal chiaro contenuto anti-gay in North Carolina e Georgia). Basti vedere il tipo di accoglienza che ricevette da parte del conservatorismo cattolico americano l’ormai famoso «chi sono io per giudicare?» di papa Francesco nel luglio di tre anni fa.

Dall’altro lato, qualsiasi statistica sulla violenza da armi da fuoco negli Stati Uniti negli ultimi due, cinque, dieci, quindici o venti anni, dice che il problema non è la radice islamista (o cristianista) di chi usa le armi, ma il fatto che le armi sono reperibili e acquistabili in mille modi diversi da chiunque. La questione non nasce con Al Qaeda, con l’11 settembre 2001, o con ISIS, come non nasceva con il Ku Klux Klan. La circolazione delle armi in America è uno dei peccati originali del progetto nazionale degli Stati Uniti, assieme alla colonizzazione che condusse all’eliminazione dei popoli «nativi» e alla schiavitù degli africani in America. L’interpretazione «originalista» del Secondo Emendamento alla Costituzione è una foglia di fico giuridica che non nasconde la simbologia politica del mito del cittadino armato.

Non c’è da stupirsi che Obama sia stato reso inerte di fronte alla questione: eleggere un presidente nero era di per sé un attentato al monopolio del potere dell’America bianca costruito anche da quella tradizione di cittadinanza armata. Gli stessi che ora si strappano i capelli sull’inazione di Obama di fronte alle stragi sono gli stessi che per otto anni (ancora da prima che fosse eletto presidente) hanno montato la campagna di delegittimazione della sua personalità politica anche a base di «Obama verrà a prendere le vostre armi». Negli ultimi anni alcuni stati hanno liberalizzato la circolazione delle armi negli esercizi pubblici, e finanche sui campus universitari; in alcune università si tengono per i docenti dei seminari su come gestire le situazioni pericolose e su come evitare di far scattare la violenza in studenti che potrebbero essere armati. È molto più complicato rifare la patente da uno stato all’altro (come mi sta capitando in questi giorni) che comprare un’arma da guerra. La paralisi sulla questione delle armi non è solo politica, ma anche culturale: tra i cattolici americani, sembra ancora impossibile accordarsi tra cattolici democratici e repubblicani sul fatto che la questione del controllo delle armi è una questione pro-life non meno seria dell’aborto e dell’eutanasia.

Il sottoscritto non è un ammiratore acritico di Barack Obama. Come il kennedismo, l’obamismo è stato più una dichiarazione di stile che un cambio di regime. Per tacere della sua politica estera mediorientale, va detto che il realismo niebuhriano di Obama non lo aiuta quando deve gestire la tensione tra potere dello Stato e legge religiosa, come gli accadde all’inizio della controversia coi vescovi americani circa la legge di riforma sanitaria. Se c’è una critica da fare a Obama, è il suo ritardo nell’affrontare la questione: solo per fare un esempio, nel lungo discorso per la strage di Tucson del gennaio 2011 (che colpì la parlamentare Gabriel Giffords) c’è solo un breve e timido passaggio a proposito del controllo sulle armi. Accusarlo di tacere della radice islamista della strage di Orlando significa ignorare non solo la causa prima della violenza in America, ma anche ignorare i recenti tentativi di Obama di superare l’inazione della classe politica sul controllo delle armi proprio facendo leva sul rischio di individui radicalizzati sul suolo americano http://www.pbs.org/newshour/bb/obama-to-gun-owners-im-not-looking-to-disarm-you/. È inverosimile accusare Obama di essere «soft on radical Islam» – di essere morbido con l’islamismo radicale. A meno che non ci si chiami Donald Trump.

MASSIMO FAGGIOLI, Huffington Post, 13 giugno 2016

14 Giugno 2016 | 16:45
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