Nunzio Zenari: «Troppi eserciti si contendono la Siria»

Fa il nunzio apostolico da 18 anni, da 37 è «in giro per il mondo» al servizio della Chiesa, ma questa esperienza in Siria «è la più delicata sotto questo aspetto perché all’inizio sembrava e in parte è anche una guerra civile ma la cosa è molto più complessa». Il cardinal Zenari è nunzio in Siria da otto anni, ogni tanto viene a Roma e riferisce al Papa, quindi partecipa alle attività della Santa Sede; lo incontriamo in uno di questi passaggi in Vaticano. Il suo pensiero rimane costantemente al Paese lacerato da cui arriva, alla gente comune che è rimasta intrappolata nella più grave catastrofe umanitaria dai tempi della seconda guerra mondiale, secondo la definizione delle Nazioni Unite. D’altro canto se si parla di 400mila vittime della guerra in Siria, molti di più, spiega il Cardinale, sono quelli morti per mancanza di cure; perché gli ospedali, le strutture sanitarie, il personale medico, tutto è andato perduto e distrutto.

Eminenza, Lei ha parlato spesso di un conflitto che si è evoluto negli anni, che ha conosciuto varie fasi. Si può dire che questa sia la caratteristica di fondo del conflitto siriano?  

«Oggi si può più o meno descrivere il conflitto in corso in un certo modo, ma fra una settimana, fra tre mesi, fra un anno nessuno può dire se sarà terminato – speriamo ma ho molti, molti dubbi – o quale sarà la situazione. Il conflitto in Siria si è andato in effetti evolvendo e io ho sempre presente una frase del secondo inviato delle Nazioni Unite in Siria, Lakdar Brahimi, prima di Staffan de Mistura, che era un esperto di mediazioni e conflitti e un paio di mesi dopo aver gettato la spugna, disse: sul conflitto siriano ci siamo tutti sbagliati, sia in Siria che all’esterno del paese. Questa è una descrizione oggettiva di un conflitto che ha sorpreso tutti».

 

Intorno alla guerra siriana sembra si giochino partite molto grandi, che la crisi sia diventata simbolo di crisi internazionali più generali. È così?  

«I problemi hanno delle origini. E secondo la mia esperienza qua non ci piove – sono otto anni che sono lì – il fondo del problema è un forte conflitto che è emerso fra i paesi della regione, questa è la base. Poi si sono aggiunti altri elementi e questioni. Però io direi che se si fosse capaci di portare al tavolo delle trattative, due paesi della regione che sono in aspra concorrenza e lotta fra loro soprattutto in questi ultimi mesi e anni (dico: l’Iran e l’Arabia Saudita, il Cardinale fa un cenno di assenso, ndr), se li si portasse al negoziato e si riuscisse a fargli stringere la mano in modo sincero, gran parte dei problemi in Iraq, Siria e Yemen, si risolverebbero. Poi si sono aggiunti altri problemi di paesi che hanno le basi navali, di altri che hanno i confini al nord e così via, ma il nodo di fondo è quello».

 

Qual è il ruolo dell’Isis?  

«Bisogna stare attenti. Il problema della Siria che interessa tutto il mondo è quello dell’Isis, del califfato, ma questo è un problema a parte che sarà risolto perché su questo punto sono tutti d’accordo, cioè nel combattere l’Isis, quindi si tratta di una questione grossa ma che prima o poi potrà essere risolta».

 

Quindi l’Isis è una sorta di crisi dentro la crisi?  

«Una crisi che può essere risolta anche se consterà moltissimo – scontri, gente che cerca di scappare – ma non è il problema di fondo della Siria, direi che è un bubbone che si è aggiunto a questa malattia, ma ripeto non è il cuore del problema siriano».

 

Se dovessimo definire il conflitto siriano, potremmo dire che è un conflitto di tipo religioso, politico o internazionale? Come lo definirebbe?  

«È stato detto ormai che si tratta di un conflitto armato internazionale perché sono intervenute alcune potenze straniere. Prima di partire da Damasco una persona mi ha detto: abbiamo diverse bandiere in Siria; ce ne sono se-sette e dietro ciascuna bandiera ci sono dei militari armati. E allora si vede come diverse bandiere rappresentano forze armate differenti che spesso sono in conflitto fra loro; sono unite nel combattere l’Isis, ma al fondo del problema queste bandiere che sono piantate in Siria si scontrano, e questo è il conflitto siriano».

 

Quindi l’eventuale soluzione del problema-Isis non scioglie tutti i nodi.  

«No, rimane il fondo del problema. Se un organismo è debole gli si può attaccare un’altra malattia, questa malattia può essere guarita ma resta la debolezza dell’organismo».

 

Il cardinale Parolin ha sottolineato come la Santa Sede si sia prodigata per far rispettare in Siria il diritto umanitario poiché edifici, scuole, ospedali sono stati colpiti in modo indiscriminato. Quanto pesa questo elemento?  

«Io sono nato a qualche chilometro da Custoza, dunque nei luoghi delle battaglie del «Risorgimento» come Solferino dove è nata l’idea stessa della Croce rossa. Il parroco di Custoza mi ha detto qualche anno fa che dagli archivi della parrocchia era venuto a sapere che nella battaglia di Custoza era stata ferita una bambina per una pallottola vagante. Cioè prima gli eserciti si scontravano in campo aperto, lontano dai centri abitati. Adesso è un disastro e si combatte nelle città, come ad Aleppo e Homs e le prima vittime diventano le popolazioni civili».

 

In Siria questo aspetto ha assunto dimensioni enormi

«Guardi è stato definito dall’Alto Commissariato per i Diritti umani di Ginevra, il disastro umanitario provocato dall’uomo più grave dalla seconda guerra mondiale. Una catastrofe umanitaria. Più di 5 milioni di rifugiati, 6 milioni e mezzo di sfollati interni, sfollati più volte perché si spostano in forza di quello che accade sul terreno. L’85% della popolazione secondo le statistiche, vive in povertà, più di metà degli ospedali è fuori uso, una scuola su tre è fuori uso, due terzi della popolazione civile non ha accesso all’acqua potabile sicura. La gente deve bere, questa dell’acqua è una «superbomba’» E poi c’è un altro aspetto: io ho visto Aleppo, Homs, e certo i bombardamenti lasciano solo scheletri di quartieri, ma c’è anche un impatto interno, quello che colpisce gli animi, questo disastro dei bambini, chi può sanare queste ferite? Un palazzo prima o poi con i petrodollari lo ricostruisci ma chi può ricostruire un animo?» .

 

C’è poi il tema dell’immigrazione…  

«Certo, questa è un’altra «bomba» gravissima, se uno viene in Siria vede i bambini e vede gli anziani, i giovani non ci sono più, i tecnici non ci sono più. A migrare sono i giovani qualificati. Se si rompe un ascensore, un computer, non ci sono più quelli capaci di ripararli. Il Paese si è svuotato completamente di giovani e di competenze. Sono aspetti meno eclatanti del conflitto ma altrettanto gravi».

 

Si è parlato molto delle comunità cristiane, che avranno avuto la stessa sorte del resto dei siriani, ma qual è la loro situazione?  

«È difficile avere statistiche precise ma si calcola che circa la metà della popolazione cristiana abbia lasciato il Paese in questi anni, prima del conflitto erano il 5-6% della popolazione; ad Aleppo erano 150mila, ora ne sono rimasti 40mila. E la scomparsa dei cristiani è un altro dato che fa riflettere, perché hanno una mentalità universalistica, dico sempre che sono una finestra aperta sul mondo, e anche questo è un impoverimento della società, non solo della Chiesa; abbiamo avuto importanti contributi dei cristiani in Siria nel campo della letteratura dell’arte. Ma anche nel campo politico, pensi che nel 1948-50 il primo ministro siriano era Fares Khoury, una grande personalità (il primo ministro dell’indipendenza, ndr), i cristiani hanno sempre avuto un ruolo importante».

 

Dal punto di vista diplomatico siamo a uno stallo completo o si muove qualcosa?  

«L’unico fatto nuovo è questo accordo di Astana (Kazakistan), ma tocca essenzialmente gli aspetti militari; con questo accordo sono state definite quattro zone di de-escalation, è un accordo patrocinato da Russia Iran e Turchia, sembrerebbe qualcosa che potrebbe avere un significato per la Siria. Perché il primo problema adesso è far tacere le armi e far arrivare i convogli umanitari».

 

Quindi gli aiuti internazionali ancora non possono passare a causa del conflitto?

«Se lei guarda le statistiche vedrà che ci sono circa 5 milioni di persone che vivono in zone di difficile accesso a causa degli scontri armati, di cui almeno 620mila che vivono in zone assediate. L’»Accordo di Astana» (4 maggio) è qualcosa di nuovo rispetto ai «cessate il fuoco» mai applicati. Poi bisogna vedere se l’accordo entra in funzione perché il diavolo si annida nei dettagli e per esempio c’è il problema dei gruppi considerati terroristici – che non rientrano nell’accordo – da alcuni e non da altri e così via».

 

Fino a qualche anno fa il conflitto chiave del Medio Oriente era considerato quello israelo-palestinese, oggi non sembra davvero più così. In base alla sua esperienza, come valuta questo cambiamento?  

«Tutto è in ebollizione. Torno a ripetere: il problema della Siria, dell’Iraq e dello Yemen è far riuscire a far stringere la mano a incontrarsi ad alcuni paesi dell’area, allora i problemi in gran parte sarebbero risolti. Poi ci sono altri ingredienti, c’è il conflitto israelo-palestinese che è sempre lì, si è aggiunto il conflitto fra Turchia e curdi, ma il fondo della questione resta quello che dicevo al principio».

 

Cosa può dire della situazione a Damasco?

«A Damasco ci sono dei contrasti enormi; se lei viene il giovedì sera che è il nostro sabato, vicino alla nunziatura, c’è una certa vita, ci sono caffè; ma Damasco è un po’ particolare ci sono impiegati governativi, studenti, si sentono passare i cacciabombardieri che vanno a bombardare anche alcuni quartieri di Damasco, come Jobar, Ghouta. La capitale è un po’ un’eccezione. Però non tutta la città è così. C’è la Damasco popolare dove la gente tira la cinghia, inoltre certe giornate sembrano normali, poi piove un colpo di mortaio. Tre anni fa un proiettile del genere colpì la nunziatura alle 6,30. Ho visto persone morire dietro la nunziatura, sono colpi che cadono indiscriminatamente, ho visto amici morire, sono andato di corsa negli ospedali più di una volta; tanti bambini sono stati colpiti mentre andavano a scuola, molti di loro restano feriti, amputati; queste schegge sono terribili per le persone, tanti sono rimasti con le gambe amputate. Un mese fa è scoppiato un missile davanti alla nunziatura e due ragazze sono morte sul colpo, una di loro era figlia di persone che conosco. E parliamo di Damasco e non di zone dove cadono le bombe».

 

Di fronte a tutto questo ci sono iniziative promosse dalla Chiesa per alleviare le sofferenze della popolazione?  

«Ci sono tre ospedali cattolici che sono attivi, stimati, e sono lì da circa 110 anni. Ma sono costretti a volte a chiudere perché la gente non ha più l’assistenza mutualistica, non hanno nemmeno uno spicciolo per contribuire alle cure, e l’ospedale deve pagare l’energia elettrica che è alle stelle, deve pagare il gasolio d’inverno che ha pure costi enormi e allora stiamo cercando di fare un piano di raccolta fondi in modo tale che questi ospedali siano aperti gratuitamente e per chi è povero e malato».

 

Da parte delle istituzioni cattoliche ed ecclesiali non ci può essere un aiuto per reperire questi fondi così vitali?  

«Abbiamo cominciato alcuni mesi fa a raccogliere dei finanziamenti e abbiamo riscontrato un certo interesse perché lì vanno degli ammalati poveri al di là del fatto che si chiamino Pietro o Mohamed, chi si presenta a questi ospedali è povero e viene curato, così abbiamo cominciato a raccogliere dei soldi. Alcune conferenze episcopali hanno risposto. Ci sono poi degli enti e istituzioni anche legate alla Santa Sede che hanno contribuito, ora non le voglio nominare, rischio di dimenticarne qualcuno. Pensi che più della metà degli ospedali in Siria sono fuori uso».

 

Questi ospedali cattolici dove si trovano?  

«Due a Damasco e uno ad Aleppo, i costi sono enormi, bisogna anche pagare i medici. In ogni caso la Chiesa cattolica nel 2016 con i suoi vari enti, associazioni, con le Caritas ha contribuito per 200 milioni di dollari in diversi progetti di aiuto alla popolazione, ai bambini, ai più bisognosi. Si tenga presente che almeno 13,5 milioni di siriani hanno bisogno di assistenza alimentare e per 7 milioni di loro questo problema è particolarmente grave. Ma altrettanto importante, lo dico sempre, è che preti, suore, religiosi rimangano nel Paese, la loro presenza è un segno importantissimo per tutti, cristiani e musulmani».

Francesco Peloso (VaticanInsider)

29 Giugno 2017 | 17:59
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