Myanmar, le Canossiane: il Papa porta parole di pace in un momento cruciale

Le religiose canossiane operano in Myanmar ormai da un decennio, in questo periodo hanno vissuto in prima persona le crisi e i cambiamenti che hanno investito il grande paese del sud-est asiatico. Ma soprattutto, con l’aiuto della Fondazione canossiana, sono riuscite – in dialogo con le autorità e le varie componenti della popolazione – a realizzare progetti di sostengo per le fasce sociali più povere, a cominciare da bambini, ragazze e ragazzi. Il viaggio del Papa arriva in «un momento cruciale», spiega suor Janet Wang, canossiana della provincia di Singapore-Myanmar; il Paese – rileva – che pure vive conflitti interni, sta facendo, sia pure timidamente, alcuni passi avanti in campo economico. Come è noto, sullo sfondo della visita di Francesco – che si svolgerà dal 26 novembre al 2 dicembre toccando Myanmar e Bangladesh – c’è la crisi umanitaria costituita delle centinaia di migliaia di profughi Rohingya (minoranza musulmana) fuggiti dal Myanmar in Bangladesh. In merito va sottolineato come, proprio in queste ultime ore, sia stato siglato un memorandum dai governi di Yangon e di Dakka in base al quale i profughi potranno fare ritorno nel loro Paese d’origine.

 

«Continuiamo a pregare per il miglioramento della situazione politico-sociale in Myanmar – rileva suor Janet – speriamo che il popolo possa vivere in pace e armonia e il nuovo governo democratico possa risolvere i problemi e dare sviluppo a un Paese ricco di risorse naturali e di cultura per il bene comune di tutto il popolo». «L’auspicio – aggiunge – è che papa Francesco possa portare il suo messaggio di riconciliazione, amore, incoraggiamento e pace a tutti».

 

Suor Janet, che significato ha la visita di papa Francesco per la vostra comunità? Quale messaggio spera che possa portare al popolo del Myanmar?

«La visita di papa Francesco offre speranza, gioia e incoraggiamento alla comunità cattolica in Myanmar. Porta un messaggio «di riconciliazione, perdono e pace, in uno spirito di rispetto e incoraggiamento». Mostra il suo amore e la sua preoccupazione non solo per la minoranza cattolica, ma anche per tutto il popolo del Myanmar durante questo periodo di transizione politica in cui permangono ancora conflitti interni».

 

Può dirci come si è sviluppata la presenza canossiana in Myanmar negli ultimi anni?

«Dal 2008, quando le suore canossiane di Singapore hanno creato una comunità a Yangon, le suore sono state coinvolte nell’educazione informale (che si realizza al di fuori dei metodi d’insegnamento tradizionale, «un imparare facendo» dei ragazzi insieme agli educatori nelle attività quotidiane; ndr) e nell’evangelizzazione; insegnano l’inglese, gestiscono un corso di formazione per educatori destinato alle ragazze nella «Canossa-home», dove pure si prendono cura di 23 bambini poveri, insegnano catechismo, condividono il Vangelo con adulti e giovani, gestiscono campi per giovani e preparano il Natale per i bambini. Quest’anno, le suore, hanno avviato un centro professionale per formare le giovani donne nei campi dell’accoglienza-ospitalità, lo scopo è quello di aiutarle a trovare lavoro negli hotel e in un piccolo asilo per i bambini dei dintorni. Ancora, abbiamo creato la nostra Casa di formazione canossiana per le giovani donne che si preparano a diventare suore canossiane».

 

Quante sono le religiose impegnate?

«Attualmente abbiamo una comunità composta da tre sorelle provenienti da Singapore, una da Timor Est, due giovani sorelle del Myanmar e altre due postulanti del Myanmar. Una terza sorella della Myanmar tornerà a far parte della comunità nel gennaio 2018 dopo aver completato il suo corso di formazione sulla prima infanzia a Singapore. Siamo supportati da benefattori e volontari laici principalmente da Singapore e Hong Kong».

 

Che rapporto avete sviluppato con il popolo del Myanmar, un paese in cui sono presenti diversi gruppi etnici e differenti fedi?

«Abbiamo sviluppato un ottimo rapporto con la Chiesa locale in Myanmar, lavorando con i vescovi, i sacerdoti e i religiosi a livello nazionale, diocesano e parrocchiale. Raggiungiamo giovani da tutto il Myanmar attraverso i campi della National Youth Leadership rivolti a giovani provenienti da tutto il Paese; offriamo poi un corso residenziale di formazione per insegnanti della durata di dieci mesi in cui giovani donne di diversi gruppi tribali imparano a vivere e lavorare insieme. I nostri campi sono aperti anche a giovani e bambini buddisti. Facciamo amicizia con i nostri vicini di diverse fedi».

 

Quanti sono i cattolici nel Paese e come vivono?

«Il Myanmar è un Paese prevalentemente buddista (l’89,2% della popolazione è buddista). I cristiani sono una minoranza (5%) e i 675.745 cattolici sono solo una frazione (circa un quinto) di questa percentuale. I musulmani rappresentano il 3,5%, l’induismo lo 0,5%, lo spiritualismo (cioè le religioni tribali) l’1,2%; questo dicono le ultime stime risalenti al 2016. Durante gli anni trascorsi sotto il governo militare, tutte le scuole e gli ospedali cattolici sono stati nazionalizzati. Tuttavia, alla Chiesa cattolica è stato permesso di prendersi cura dei cattolici, così sacerdoti e religiosi hanno potuto continuare ad aiutare i poveri con varie attività come gestire pensioni e orfanotrofi per bambini provenienti da villaggi remoti che dovevano andare via da casa per frequentare le scuole statali, oppure hanno gestito ostelli per i giovani che frequentano università lontane».

 

Che momento sta vivendo il Myanmar, dal punto di vista sociale, storico?

«Questo è un momento cruciale nella storia del Myanmar. Il Paese non è più governato dai militari da due anni (nel 2015 si svolsero le elezioni che videro la vittoria della Lega nazionale democratica guidata da Aung San Suu Kiy, ndr); ma i militari controllano ancora diversi ministeri chiave. In questo momento di transizione, la crescita sta avvenendo a un ritmo molto lento. Le infrastrutture sono ancora molto scarse, anche se ci sono molti nuovi edifici e nuove auto nelle strade delle città e le persone comuni possiedono ora anche i telefoni cellulari. Un problema di lunga durata sono gli scontri etnici: per esempio il conflitto in corso nello stato di Kahin, causato dalle richieste di autonomia da parte di alcuni gruppi tribali. Inoltre, c’è il grosso problema costituito dagli oltre 600mila musulmani Rohingya che sono fuggiti dallo stato di Rakhine e ora sono rifugiati in Bangladesh».

Francesco Peloso – VaticanInsider

28 Novembre 2017 | 07:20
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