Mons. Pero Sudar
Internazionale

Mons. Sudar (Sarajevo): «La pandemia ci fa paura, ma non è come la guerra»

La Bosnia-Erzegovina porta ancora le ferite della guerra. Nell’aprile del 1992, ventotto anni fa, il conflitto nei Balcani toccava un livello drammatico con l’assedio di Sarajevo. In seguito all’indipendenza proclamata dal governo bosniaco, le forze militari jugoslave risposero con un attacco brutale durato quasi quattro anni: il bilancio parla di almeno 12mila morti e 50mila feriti. Monsignor Pero Sudar, che fino allo scorso novembre è stato vescovo ausiliare di Sarajevo, all’epoca era rettore del seminario proprio nella capitale bosniaca. L’anniversario dell’assedio coincide quest’anno con la crisi globale del Coronavirus: occasione per conoscere meglio la situazione attuale della Bosnia-Erzegovina, e per capire se guerra e pandemia siano davvero paragonabili.

Eccellenza, quali ricordi ha di quella terribile primavera del 1992?
Nella casa del seminario interdiocesano eravamo un centinaio di persone tra studenti, professori e suore. Già dall’inizio del 1991 avevamo potuto seguire da vicino la guerra in Croazia, che in parte interessava alcune zone dell’Erzegovina orientale e che poi si è diffusa progressivamente in tutta la Bosnia ed Erzegovina. Perciò la guerra è cominciata molto prima del suo inizio «ufficiale», cioè l’assedio di Sarajevo. Mi è rimasto in mente, innanzi tutto, il sentimento di incertezza e la paura per le vite delle persone in casa, dato che ogni sera in televisione potevamo vedere le torture e i massacri nelle città e nei villaggi conquistati dall’esercito jugoslavo e dalle milizie serbe. Nel frattempo, gli aggressori avevano accerchiato Sarajevo in modo tale che nessuno poteva uscirne, minacciando e provando a conquistarla. Dopo solo una settimana di assedio, in città non c’erano più viveri alimentari da comprare. In una settimana avevamo esaurito tutte le riserve! Bisognava provvedere alla sopravvivenza delle oltre cento persone che erano in casa e anche di un grande numero di concittadini che si erano rifugiati nelle cantine del seminario. Però, il peso più grande per me era l’assurdità della guerra, che costringeva la gente che per tutta la vita aveva vissuto, lavorato e abitato insieme, a farsi del male in modo disumano. Nelle prime settimane e primi mesi quasi non dormivo affatto, non tanto per la paura, quanto per una profonda delusione e tristezza.

La devastazione di Sarajevo durante gli anni dell’assedio

Oggi il mondo affronta la pandemia del Coronavirus. Molti commentatori dicono che questa situazione è «come una guerra». Ma è davvero così?
È vero, ci sono «cose» molto simili, se non addirittura uguali. Prima di tutto il sentimento della paura per la vita, l’incertezza e l’incapacità di proteggere se stessi e gli altri. In un certo senso, comune alla pandemia e alla guerra è anche un sentimento subdolo ma pesante e brutto che l’altro sia una minaccia. In più, è identica la sensazione che il nemico sia invisibile, perché nelle guerre moderne si uccide anche da grande distanza e non c’è modo di nascondersi e ripararsi dalle bombe «intelligenti»; così anche per il virus.
Però, devo anche aggiungere che niente è paragonabile a una guerra! Essa è il culmine di tutti i mali, perché gli esseri umani, invece di proteggersi a vicenda, diventano contemporaneamente i predatori più accaniti e la preda più indifesa. Durante la guerra, per visitare le parrocchie fuori Sarajevo ero costretto a percorrere anche a piedi le strade e i sentieri nei boschi. Ogni tanto mi veniva il pensiero: preferirei incontrare un animale selvatico o un uomo? L’animale, qualsiasi animale selvatico, mi sembrava meno pericoloso. Ecco a che cosa ci riduce la guerra! Ogni tipo di guerra infligge ferite profonde, non soltanto fisiche, ma anche psichiche e morali che rimangono e fanno male, generando nuove ferite anche anni e decenni dopo la guerra. Per non parlare delle ingiustizie che sono una conseguenza inevitabile di ogni guerra, dato che dal culmine dell’ingiustizia, che è la guerra in sé, non può nascere alcun tipo di giustizia. Per questo sono profondamente convinto che il concetto stesso di guerra giusta sia una grande menzogna. Queste e tante altre conseguenze della guerra, come ad esempio la distruzione materiale, le pandemie non le provocano. Anzi, le malattie di solito suscitano sentimenti di empatia e, non di rado, risvegliano il senso dell’altruismo e della collaborazione. E’ da sperare che anche questa pandemia ci aiuti a guardare noi stessi e gli altri con un di più di empatia e solidarietà!

La biblioteca di Sarajevo, uno dei simboli della città, bruciata durante la guerra e ricostruita al termine del conflitto

Come è oggi la situazione in Bosnia, a 25 anni dalla fine del conflitto? Ci sono ancora tensioni che attraversano la popolazione?
La Bosnia ed Erzegovina è un esempio eclatante che la guerra peggiora sempre e comunque la situazione in cui si possono trovare le persone e le società. Nella nostra guerra si è avverata l’affermazione che l’odio più accanito può succedere anche tra fratelli. Mi risulta che non ci sia stata una tipologia di violenza e di ingiustizia che i nostri concittadini non abbiano sperimentato durante la guerra. Basti ricordare che più del 63% dell’intera popolazione ha dovuto abbandonare i luoghi in cui viveva e lasciare tutto ciò che possedeva! E solo pochi, a causa di una pace ingiusta imposta dai vertici della cosiddetta comunità internazionale capeggiata dell’amministrazione statunitense, hanno avuto la possibilità di tornare nelle loro case. Il nostro Paese, distrutto dalla guerra ingiusta, congelata e «coronata» dalla pace ingiusta, dimostra che un male non può mai essere corretto con un altro male! Nonostante gli ingenti aiuti economici che provengono dall’estero e i tentativi politici del «pietrificato» consiglio per la implementazione della pace, l’economia è ferma, le liti tra i politici e le accuse reciproche, con i retroscena etnico-religiosi, sono all’ordine del giorno. Tutto questo alimenta il rancore e le tensioni, avvelenando sempre di più le relazioni tra popoli, gruppi e partiti politici. La conseguenza di tutto ciò è la massiccia emigrazione dei giovani e delle giovani famiglie. Rimangono gli anziani – che non vuole nessuno e di cui non si cura nessuno – e gli immigrati, che questo Paese moralmente non può né rifiutare, né ospitare a causa della mancanza delle risorse e delle elementari condizioni di vita. In conclusione, risultiamo una società con una prospettiva cupa di futuro, che la propria gente rifugge e i veri profughi popolano.

La mappa della Bosnia-Erzegovina: in rosso il territorio della Federazione di Bosnia ed Erzegovina, in giallo la Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina. Il piccolo territorio a righe rosse è il distretto di Brčko, sotto la supervisione della comunità internazionale

E rispetto al Coronavirus, qual è oggi la situazione nel Paese? In che modo la gente sta vivendo nel tempo della pandemia?
Per grande fortuna la pandemia del Coronavirus nel nostro Paese non si è diffusa più di tanto, grazie alle misure preventive attuate in tempo. Dal primo contagio sono passati quasi due mesi e la situazione è rimasta «lineare», con 1077 contagiati, 234 guariti e 41 morti. Questa però non è la conseguenza di un sistema sanitario ben organizzato ed efficace. Anch’esso è infatti immagine fedele del sistema politico diviso e contrapposto. Ricordo che il nostro Paese, composto da tre popoli, è diviso in due entità (Federazione di Bosnia ed Erzegovina, a maggioranza croato-bosniaca di fede cattolica o musulmana; e Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, a maggioranza serba di fede cristiano ortodossa ndr): esse, secondo la loro natura, di continuo e in tutti gli aspetti lo lacerano, dal momento che un’entità tende all’autonomia e separazione e l’altra al centralismo e alla dominazione. Il sistema sanitario, oltre al fatto di essere diviso e separato in due entità e frammentato in dieci cantoni, necessita delle risorse umane e materiali. Molti medici specialisti, come del resto la maggior parte delle persone qualificate, sono andati via. Si può solo immaginare l’efficacia di un sistema sanitario che ha più ministri che respiratori! Per fortuna la gente, dopo aver visto cosa succedeva nei Paesi ben organizzati e, forse, anche con l’esperienza della guerra, osserva assai bene le misure dell’isolamento. E’ da temere che questo lungo isolamento possa avere conseguenze di altra natura, dato che i membri di molte famiglie devono vivere in piccole abitazioni, che gli anziani sopra i sessantacinque anni e i giovani sotto i diciotto non possono uscire affatto. Giorni fa, nei media, circolava un messaggio che «profetizzava» la vera pandemia dell’esaurimento nervoso. Speriamo di no, ci basta ciò che abbiamo già vissuto con la guerra!

L’emergenza sanitaria porta con sé anche nuove esigenze spirituali. In che modo la Chiesa può essere vicina a coloro che vivono un tempo di difficoltà?
Il modo migliore è vivere la promessa che ci ha dato e testimoniato Gesù, e cioè che in tutto e per tutto Lui rimane con e in mezzo agli uomini. La Chiesa non può e non deve fare altro che annunciare e testimoniare questa splendida verità, perché neppure Dio ci libera dalle prove, non fa miracoli per impedire la pandemia. Lui, come ci ha dimostrato in Gesù, si mette accanto a noi, soffre con noi e così dà senso e valore alle prove, rendendole sopportabili a coloro che credono. Non dimenticando che sono i battezzati a fare la Chiesa, se coloro i quali la rappresentano accettano l’uomo e la realtà per la quale Gesù ha trovato giusto morire, questo atteggiamento permetterà, con segni e gesti piccoli ma significativi, di far sentire alla gente che la Chiesa è con loro, anche quando le chiese sono chiuse, perché la Chiesa vive e fa parte del mondo. Temo che proprio nel contesto del valore umano la Chiesa necessiti di una vera conversione, per poter dare autentica testimonianza di essere dalla parte dell’uomo e dell’umanità in tutte le prove ed afflizioni.

Papa Francesco in visita a Sarajevo nel giugno 2015

Papa Francesco ha detto in questi giorni che «Nessuno si salva da solo». In un territorio come quello della Bosnia, dove i cristiani cattolici sono una minoranza , qual è l’effetto di queste parole? Pensa che sarà possibile ricostruire, dopo questa crisi mondiale, un nuovo spirito di fratellanza?
Questa, come tutte le grandi crisi, ha ricordato a tutti coloro che lo vogliono vedere quanto siamo uguali e connessi nella nostra fragilità e incapacità, nonostante le fantastiche conquiste della scienza e della tecnologia. Spesso ci è sembrato che l’uomo fosse diventato il padrone della propria esistenza, ma il Coronavirus, e non solo, ci ha fatto capire che non è affatto così. La vita rimane un mistero! Si può capirla solo promuovendola, perché solo così ci mettiamo dalla parte di Colui che è suo unico vero conoscitore e promotore. E’ ormai evidente che l’essere umano si trova di fronte ad un grande crocevia. Quindi non soltanto che nessuno si salva da solo, come recita il vecchio pensiero teologico alludendo alla salvezza eterna, ma che l’umanità intera corre il rischio di distruggere anche questo magnifico Pianeta che ci ospita. L’egoismo e lo sfruttamento hanno reso l’ingiustizia la regola di fondo delle relazioni internazionali e interpersonali. E questo è diventato uno stile che non ci disturba nemmeno più. Papa Francesco non si stanca di ripeterlo. La fraternità globale deve rimanere non soltanto un ideale, ma una reale possibilità, perché è lì che troviamo Dio al lavoro, come nostro grande alleato. Molto dipende dalla nostra volontà di liberare le energie positive che vivono in ogni uomo. L’essere umano per sentirsi veramente realizzato e felice ha bisogno del bene e di tendere al bene! L’auspicabile nuova fraternità dovrebbe e potrebbe cominciare solo se noi ricchi rinunciassimo ai nostri bisogni «inventati», a favore dei veri bisogni dei poveri.
La Chiesa in Bosnia ed Erzegovina è nelle condizioni di poter fare poco, considerato il suo attuale smarrimento e disorientamento. Però, potrebbe smettere di fingere la forza e il potere che non ha, accettando di essere il piccolo gregge di Gesù. Riconoscendosi povera non soltanto materialmente e disarmata dalla finta forza politica, potrebbe dare il suo necessario contributo al rafforzamento della fede della propria gente a Dio Padre di tutti, al valore della convivenza e della collaborazione tra i popoli e le religioni, in questo Paese lacerato da divisioni e contrapposizioni, disorientato dalle finte e illusorie amicizie e collaborazioni. Questo piccolo Paese situato al confine e all’incrocio dell’Europa potrà essere una prova della capacità dell’uomo moderno di accettare le diversità come ricchezza oppure di trasformarsi nell’annuncio di una grande sciagura. Sono profondamente convinto che nessuna delle due prospettive si avvererà senza un serio impegno – di merito o di grande colpa – delle Chiese e delle comunità religiose presenti in questo Paese.     

Mons. Pero Sudar
25 Aprile 2020 | 22:00
Tempo di lettura: ca. 8 min.
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