Mons. Paul Hinder: «L'esperienza di una chiesa multiculturale mi ha aperto gli occhi»

Mons. Paul Hinder è di rientro in Svizzera per qualche giorno per risposarsi al convento cappuccino di Svitto. È l’occasione, per il vicario apostolico dell’Arabia meridionale, di evocare le specificità della sua missione e il contesto culturale nel quale s’inscrive.

Con la sua sede ad Abou Dhabi, negli Emirati arabi, il cappuccino svizzero è il Vescovo di una delle più grandi Diocesi del mondo. La sua giurisdizione si estende per un milione di metri quadrati, comprendente gli Emirati arabi, l’Oman e lo Yemen. Il cattolicesimo, che è una minoranza, si distingue per la sua grande diversità e questa è una sfida.

«L’esperienza di una Chiesa multiculturale in Arabia mi ha aperto gli occhi», confessa, sottolineando il pericolo, per un cattolicesimo poco disposto all’apertura, «di ricadere in un dogmatismo troppo specifico».

Il Vescovo cappuccino evoca ugualmente i «due volti» della penisola arabica. «Due mondi si intrecciano. Da una parte il mondo delle megapoli in stile occidentale, in cui lo sviluppo è dovuto al boom del petrolio, combinato a numerosi eventi politici». D’altra parte, alcune fette della società sono ancora fortemente tradizionali, tribali. I legami famigliari sono in questi casi importantissimi. Accade spesso che il potere sia nelle mani di un’élite locale, che lo detiene tutto in modo più o meno democratico».

In questo contesto, la minoranza cristiana è rispettata, assicura mons. Hinder. «Sono sempre colpito dal vedere che i cristiani sono considerati come particolarmente degni di confidenza e sono dunque preferiti per certi compiti. Non di rado sono coloro che gestiscono le questioni finanziare di uomini importanti e questo non dipende solo dalle loro conoscenze professionali».

Negli ultimi 15 anni, Hinder dice di aver appreso molto sull’islam, senza esserne però ancora uno specialista. «Non ho avuto il tempo e il coraggio di studiare il Corano», spiega. «Ma di tanto in tanto cerco e leggo dei capitoli». La sua integrazione in quanto capo di una Chiesa locale «è una grande sfida». «La penisola arabica mi era profondamente estranea», riconosce il Vescovo poliglotta, che ha dovuto mettersi ad imparare l’inglese, sua «lingua di lavoro», nello spazio di un mese, dopo aver appreso della sua nomina. Negli Emiriati, la testimonianza dei fedeli gli ha fatto prendere coscienza del ruolo che è chiamato a svolgere come Vescovo: essere un sostegno per le differenti comunità cattoliche.

Cath.ch/red

31 Luglio 2018 | 16:01
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