Dialogando con mons. Garmou, invitato in Ticino da Aiuto alla Chiesa che Soffre.
Sinodo

Mons. Garmou, vescovo caldeo di Teheran in visita in Ticino: «Il prossimo Sinodo? Molto probabilmente, secondo me, sulle donne nella Chiesa»

Si è svolta a Balerna, ieri sera, la fiaccolata organizzata da Aiuto alla Chiesa che Soffre per fare memoria delle Chiese, dei sacerdoti, delle religiose e dei laici perseguitati nel mondo, in occasione del mese missionario. Ospite d’eccezione il vescovo caldeo di Teheran, mons.Ramzi Garmou, invitato per portare la sua testimonianza.

Dialogando con lui, abbiamo cercato di comprendere come vivono attualmente i circa 60mila cristiani in Iran, appartenenti a diversi riti; una goccia su una popolazione di 80 milioni di persone, in un contesto per altro segnato da una forte emigrazione. Tenendo conto che il Paese è musulmano al 98 % (sciiti 86,1%; sunniti 10,1%; altri musulmani 2%) la libertà garantita ai cristiani è senz’altro maggiore rispetto ad altri Paesi della regione, anche se in realtà non mancano problemi e violenze. In passato Visitatore apostolico dei Caldei europei – tra cui le 200 famiglie caldee svizzere – mons. Garmou ha anche partecipato in questi giorni come padre sinodale al Sinodo sui giovani e ci racconta la sua esperienza:

Mons. Garmou, qual è l’approccio attuale del governo iraniano alle religioni?

«Da quando è stata costituita la Repubblica islamica, sono ufficialmente riconosciute tre minoranze in Iran: quella cristiana, quella ebraica e quella zoroastriana. Queste tre religioni hanno il diritto di celebrare nei luoghi di culto riconosciuti dallo Stato. Ma c’è una questione che rimane ad oggi irrisolta: la libertà di religione, che è inesistente. La conversione dall’Islam è proibita perché si crede destabilizzi il Paese. I convertiti perdono identità, stato, tutto. Per questo, spesso, la soluzione diventa l’emigrazione, perlopiù negli Stati Uniti. Per cui, attualmente i cristiani presenti in Iran non sono più di 60’000.

Ma ricordiamoci di una cosa: la forza di una Chiesa non si misura con i numeri ma per il suo dinamismo, e questo è dato dalla testimonianza di vita. Nella vita quotidiana, in Iran siamo tutti i giorni confrontati con i musulmani: sono i nostri vicini di casa, i nostri compagni di banco, la persona con cui condividiamo il viaggio in bus. Questo significa che possiamo prestare la nostra testimonianza dappertutto, il che può avere delle conseguenze enormi. Piuttosto che al dialogo interreligioso condotto a livello intellettuale, io personalmente, guardando a quello che succede in Iran, credo molto di più al cosiddetto «dialogo della vita». Ciò non toglie che anche a livello intellettuale possano esserci dei segnali positivi: non molto tempo fa, un gruppo di musulmani di una famosa università del Paese ha tradotto il catechismo, come segno di collaborazione e di stima verso i cristiani».

Ha potuto portare l’esperienza dei giovani iraniani al Sinodo?

«Certamente, al Sinodo si è parlato molto di quei giovani che vivono in un contesto in cui la libertà di religione non esiste, come da noi, e anche dei giovani convertiti: giovani che hanno conosciuto la prigione, la persecuzione e magari la condanna a morte. Dai Padri sinodali è stato formulato un messaggio di solidarietà nei loro confronti.

In generale, posso dire che durante il Sinodo abbiamo lavorato bene. Potevamo usufruire di due tipi di intervento: un intervento scritto su un tema già preparato in precedenza, da esporre in 4 minuti all’assemblea sinodale e poi un intervento libero. Essendo il mio quinto Sinodo, ho anche potuto notare delle differenze nella maniera di lavorare e nell’organizzazione, tra cui una che mi ha colpito particolarmente: il Papa ci ha chiesto di fare, ogni 5 interventi, almeno 3 minuti di silenzio per meditare e pregare. Un aiuto incredibile per interiorizzare le parole dei padri sinodali. Il Papa è stato lungimirante in questo senso.

Lei nel suo intervento libero su cosa si è concentrato?

«Nel mio intervento libero ho scelto di trattare la seconda parte dell’Instrumentum Laboris, in cui si parla dell’appello universale alla santità. La santità è la vocazione di tutti, in qualsiasi luogo. Bisogna davvero cercare di diventare santi perché è possibile. «Siate santi come io sono santo», dice il Signore. Io ho sviluppato questo tema.

Una questione che è stata poi molto dibattuta, a livello generale, è quella della donna, e vi confiderò una cosa: a mio modo di vedere, è fortemente possibile che il prossimo Sinodo, dopo quello sull’Amazzonia, sia proprio sulla donna nella Chiesa. Dico questo perché ai padri sinodali è stato chiesto di proporre tre nuovi possibili temi per un Sinodo: accanto a liturgia e valorizzazione del patrimonio mistico orientale, io ho scelto proprio questo tema e penso di non essere stato l’unico».

Cosa cambierà dopo questo Sinodo?

«Ecco, abbiamo molto insistito su questo tema. I giovani devono sapere che lo sguardo della Chiesa su di loro è cambiato. Il sinodo è loro, dei giovani, che devono essere convinti di una cosa essenziale: possono contare su Gesù, sulla sua fedeltà, quindi vivere la gioventù con spirito di confidenza e gioia. Le difficoltà non mancano ma neanche la grazia di Dio.

Personalmente, mi auspico anche che ogni Vescovo, ritornato nella sua Diocesi, organizzi degli incontri per parlare del Sinodo, per spiegare chiaramente quello che è stato fatto».

Come vede l’attuale situazione della Chiesa, colpita da così tanti scandali?

«È un appello di fondo alla conversione, a condurre una vita conforme al Vangelo, che non scandalizzi. Il Papa lo ha ribadito. Poi il compito dei giornalisti è quello di ridare sempre la verità, anche se ci sono dei rischi. Ma noi sappiamo che la verità ci libererà».

(red)

Dialogando con mons. Garmou, invitato in Ticino da Aiuto alla Chiesa che Soffre.
27 Ottobre 2018 | 15:57
Tempo di lettura: ca. 3 min.
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