I missionari hanno due mani e due cuori

Bollettino Salesiano – Febbraio 2017
Incontro con il salesiano don Johann Kiessling che dal 1982 vive nella Repubblica Democratica del Congo.
«Un missionario è un sacerdote e nello stesso tempo un operatore umanitario» afferma.

Lei è in Congo da 32 anni e sette anni fa si è stabilito nella zona del Kipusha. Che cosa distingue Kipusha da altre regioni del Paese?
Kipusha è la regione più povera del Congo. Ha una superficie di 10.000 chilometri quadrati. È quindi estesa come la Carinzia, ma ha una densità della popolazione inferiore. I suoi abitanti vivono di agricoltura e la terra non è molto fertile. Poiché lavorano con la zappa, possono coltivare campi la cui estensione massima non superi due ettari, che corrispondono alla dimensione di due campi da calcio. Coltivano soprattutto mais e fagioli e il loro lavoro è appena sufficiente per sopravvivere. Per avere un buon raccolto è necessario che il sole e la pioggia si avvicendino in modo favorevole. Se la pioggia è eccessiva, le piante ingialliscono e non portano frutto. Quando sono arrivato in questa regione, sette anni fa, la perdita del raccolto aveva provocato una carestia. La gente poteva mangiare solo una volta al giorno e con il passare delle settimane questo unico pasto era sempre più scarso. Così nessuno era sazio. Patirono dunque la fame fino al raccolto successivo di mais.
Nella regione di Kipusha non c’è alcun servizio postale, non ci sono Internet e il telefono. Per tenere i contatti con il mondo esterno disponiamo solo della radio amatoriale nella missione. Dobbiamo dunque accordarci con un operatore che metta in azione un’altra radio alla stessa ora due volte al giorno. Così riceviamo le notizie o segnaliamo che abbiamo bisogno di un medico.

Quanti Salesiani vivono nella missione?
La nostra comunità è composta da cinque Salesiani: due congolesi, un belga, un polacco e io. Uno è un confratello laico, quattro di noi sono sacerdoti, uno dei quali per le sue condizioni di salute trascorre la maggior parte del tempo in casa. Parliamo in francese.

Quali responsabilità ha un missionario cattolico in Africa?
Un missionario è un sacerdote e nello stesso tempo un operatore umanitario. Lavoriamo dunque con entrambe le mani. Con una cerchiamo di portare il cristianesimo più vicino alla gente. Con l’altra ci sforziamo di migliorare le condizioni di vita delle persone. Non si può solo predicare la carità la si deve anche vivere. Ad esempio, in nessun altro luogo costruire pozzi è difficile come nella regione di Kipusha. Sei tentativi non sono andati a buon fine, perché abbiamo sempre trovato una lastra di pietra. C’era un piccolo corso d’acqua, ma là bevevano gli animali e tutti lavavano se stessi e gli abiti.
La nostra missione è anche un punto di riferimento per gli ammalati o per le madri che non riescono a dare alla luce il loro bambino e hanno bisogno di un taglio cesareo. Accompagniamo le partorienti nella città di Sakanya. Il percorso di 110 chilometri richiede cinque ore, perché la strada è in cattive condizioni. Quando piove, la situazione è ancora peggiore. L’ultima volta ho impiegato dodici ore.
Siamo molto grati al Consorzio Missionario per i trasporti MIVA, che ci ha fornito una Toyota Land Cruiser. Grazie a questo veicolo abbiamo già potuto salvare molte persone.

Nella regione di Kipusha ci sono 40 parrocchie. In che modo adempite i vostri compiti pastorali?
Dal momento che abbiamo solo tre sacerdoti attivi, incontriamo i fedeli delle varie parrocchie solo una volta ogni tre o quattro mesi. I parrocchiani hanno allora la possibilità di confessarsi e di ricevere i sacramenti del battesimo, dell’eucaristia o del matrimonio.
Nella nostra attività pastorale facciamo affidamento sull’aiuto dei catechisti, che visitano i vari villaggi con regolarità e, ad esempio, preparano a ricevere i sacramenti. Di nuovo grazie a una donazione del Consorzio MIVA, i catechisti possono coprire in bicicletta le distanze spesso lunghe per raggiungere i vari villaggi.

Quando è arrivato in Congo in qualità di missionario, a 48 anni, quali sono state le sfide più importanti che ha dovuto affrontare?
Per prima cosa ho dovuto imparare il francese. Ma il solo francese non era sufficiente. Nel corso dei primi 15 anni di missione ho visitato regolarmente tutti i villaggi e dunque ho dovuto imparare anche la lingua chibemba. Riesco quindi a esprimermi e a predicare in chibemba. Molte volte però pronuncio le parole in modo non corretto e così il loro significato cambia completamente. Ad esempio, la parola kadeka se è articolata con le vocali brevi significa «topi». Con le vocali lunghe vuole invece dire «autorità». Può così accadere che si dica di pregare per i topi, suscitando ilarità.
Sei mesi dopo essere arrivato, sono stato colpito dalla malaria. Pensavo che sarei morto. Avvertivo dolori in tutto il corpo, mi sembrava che la testa mi scoppiasse, avevo la dissenteria. Con il passare del tempo ho acquisito anticorpi e non ho più subito attacchi così forti. Ora ho sempre a portata di mano farmaci antimalarici. Con il tempo si impara a conoscere se stessi, a comprendere se una sensazione possa essere sintomatica della malaria. Se si assumono subito i farmaci, nell’arco di due giorni i sintomi scompaiono. Le compresse di chinino operano un piccolo miracolo.

Qual è l’aspetto specificamente salesiano della sua opera missionaria?
L’attenzione per i bambini. Noi Salesiani abbiamo il carisma del lavoro accanto ai giovani. Qui nella regione di Kipusha dedichiamo particolare attenzione agli orfani. Nell’area della nostra missione ci sono circa 500 bambini orfani di un genitore o di entrambi. Molti non possono andare a scuola per la mancanza di mezzi economici. Nella regione di Kipusha gli studi sono a pagamento, dalle prime classi elementari all’università. I docenti ricevono da parte dello Stato 60 euro al mese, che non sono sufficienti per vivere. Insistono dunque affinché vengano corrisposte le rette scolastiche.
I bambini che non pagano vengono espulsi dalla scuola. I docenti li minacciano con un bastone perché non rimangano in prossimità della scuola e non disturbino gli altri. Ovviamente, i bambini non sono in grado di valutare che cosa significhi la scuola per loro. Se sono espulsi dalla scuola, giocano a calcio. Ma in questo modo non impareranno mai a leggere e scrivere.
L’anno scorso ho dunque cominciato a pagare le tasse scolastiche per gli orfani. A Natale però non avevo più denaro. Ho chiesto agli insegnanti e ai direttori di permettere agli orfani di studiare ancora per un anno. Ho promesso che avrei pagato le rette al mio ritorno dall’Austria. Si fidano di me perché in passato hanno verificato che quando prometto una cosa la mantengo. Ora dunque devo raccogliere in Austria il denaro per pagare il mio debito e l’occorrente per permettere ai bambini di frequentare la scuola il prossimo anno scolastico.

Qual è il costo per la frequenza di un anno scolastico?
Permettere a un orfano di studiare per un anno costa 40 Euro, comprensivi di lezioni, pensionato, acquisto di quaderni, matite e penne. È un dato medio. La scuola elementare avrà ad esempio un costo molto inferiore rispetto all’ultima classe delle scuole medie superiori.
Per legge, i giovani che hanno superato l’esame di stato conclusivo della scuola media superiore possono insegnare nelle scuole elementari. Questo è possibile perché le ultime due classi delle scuole medie superiori hanno un orientamento fortemente educativo. Con le donazioni offerte a questo fine si aiutano dunque molte persone: i bambini che possono studiare, i docenti che, grazie alle tasse scolastiche, si assicurano la sopravvivenza e i giovani che, dopo aver conseguito il diploma di scuola media superiore, possono contribuire, a lungo termine, a risolvere il problema della carenza di insegnanti nella regione di Kipusha.

Pensa di tornare definitivamente in Austria?
No, non è nei miei programmi. Sto molto bene in Africa. Naturalmente, so che alla mia età devo essere cauto, che devo valutare le mie forze. Non vorrei però mai abbandonare questo lavoro, che mi rende molto felice. Se avrò la necessità di rallentare la mia attività, dovrò accettare questa limitazione. Posso anche lavorare in case nelle quali viene richiesto un impegno meno gravoso. In Congo abbiamo circa 20 case, in cui si svolgono attività molto diversificate. Ad esempio, una nostra comunità ha la responsabilità della cura pastorale in un ospedale. Quest’opera ovviamente richiede molte meno energie rispetto alla costruzione di pozzi. Se dunque non riuscirò più a svolgere il mio servizio «in prima linea», potrò dedicarmi ad attività più leggere. Per me, il Congo è diventato una seconda patria. Vorrei essere sepolto là.

27 Febbraio 2017 | 09:18
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