Lo Zimbabwe riparte dalla società civile

Si dice che Mugabe, al potere dalla vittoria della lotta di liberazione del 1980 contro la minoranza bianca di Ian Smith, governatore dell’allora Rhodesia, più che dal volere del popolo e dalle sollecitazioni dell’esercito che dal 15 novembre (data del golpe) lo invitava a lasciare, si sia fatto convincere da 10 milioni di dollari di buona uscita. Potrebbe essere l’ennesimo colpo duro alla fragilissima economia zimbabwana e avere ripercussioni sul processo di democratizzazione appena innescato. Ma la gente, ora pensa ad altro. Decine di migliaia di cittadini continuano a scendere in piazza per festeggiare le dimissioni storiche del loro ormai ex presidente-padrone siglate lo scorso 21 novembre mentre in un parlamento allarmato da un iniziale rifiuto, si discuteva dell’eventuale procedura di impeachment presentata dallo stesso partito di Muagbe, lo Zanu-Pf.

Il potere ora, dopo essere stato saldamente nelle mani dell’eroe dell’indipendenza trasformatosi progressivamente in un feroce tiranno, passa al suo ex vice, Emmerson Mnangagwa, «il coccodrillo», fino alla scorsa settimana temporaneamente rifugiatosi nel vicino Sudafrica per timore di ritorsioni. La speranza di rimettere in sesto un Paese straricco di risorse ma finito in disgrazia a causa di politiche socio-economiche disastrose – lo Zimbabwe «vanta» una disoccupazione attorno al 90%, un pessimo rating di Human Development, una inflazione spaventosa e il 68% della popolazione al di sotto della soglia di povertà –

giace in gran parte nella società civile. Le varie Chiese presenti nel Paese, le associazioni, le università sono immediatamente scese in campo convocando una Convention tra il 23 e 24 novembre scorsi, lanciando una road map ben delineata e chiamando tutte le componenti della società a dare ora il massimo del proprio contributo per riportare lo Zimbabwe a essere il «granaio d’Africa» e trasformarsi al più presto in un Paese pacificato e democratico.

 

A Vatican Insider la testimonianza di Fradereck Chiromba, il Segretario Generale della Conferenza episcopale cattolica, tra i protagonisti della Convention.

«La Chiesa cattolica e le altre hanno sempre desiderato che venisse istituita quella che abbiamo denominato la National Envisioning Platform per dare forma ad una visione di nazione, e quando abbiamo capito che le cose per il nostro Paese stavano cambiando radicalmente, ci siamo organizzati per convocare la National People’s Convention. Un po’ come Mosè e gli Israeliti, abbiamo trascorso 40 anni nel deserto dove, pure avendo potenzialità incredibili, non abbiamo potuto sfruttarle. Non siamo riusciti per molti motivi a realizzare lo «Zimbabwe We Want» (dal nome di un documento redatto dalle Chiese e lanciato dallo stesso Mugabe nell’ottobre del 2006, ndr). Ora, proprio come Neemia di ritorno dall’esilio, abbiamo un’opportunità incredibile di entrare nella terra promessa».

 

Che atmosfera si respira al momento?

«C’è una bella sensazione di calma e di pace tra la gente. Le uniche tensioni sono interne al partito Zanu Pf: la fazione uscita vincitrice rivendica la nuova situazione e c’è chi teme che possa provocare ritorsioni sulla corrente più vicina all’ex presidente. In ogni caso, fino a domenica sera migliaia di persone hanno inscenato danze, canti e feste di piazza. Ora siamo tutti tornati al lavoro ma l’aria è ancora elettrizzata. Il discorso inaugurale del nuovo Presidente è stato accolto con grande entusiasmo. La gente attendeva di sentir parole di inclusione e democrazia da tantissimo tempo e Mnangagwa le ha pronunciate promettendo di formare un governo di unità nazionale composto da vari partiti politici. Certo, ora attendiamo l’immediato processo di implementazione di quanto enunciato (sulla figura di Mnangagwa gravano tuttora forti dubbi relativi al sua passato di feroce repressore degli oppositori nell’immediato post indipendenza e di duro esecutore degli ordini del suo ex «capo» in qualità di responsabile dei servizi segreti, ndr)».

 

Siete riusciti a convocare in tempi record una convention che avrà un grosso peso politico…

«Sì, come le ho detto, da tempo speravamo in questa opportunità e avendoci lavorato per anni, abbiamo colto subito l’occasione. La Convention, convocata dalla Chiese e dalla società civile, è stata una bellissima esperienza di partecipazione e collaborazione di tanta gente che per due giorni interi ha lavorato assieme per il bene del popolo. Puntava a conformare una nuova visione del Paese, a innescare un processo democratico che faccia ripartire la società, l’economia, che faccia sentire tutta la popolazione al sicuro. Terminato l’incontro noi cattolici abbiamo elaborato un documento che recepisce i punti discussi e pubblicati nella Dichiarazione Finale. Si chiama «Pastoral Statement of the Zimbabwe Catholic Bishops’ Conference» ed è stato pubblicato domenica 26 novembre. Nella fattispecie abbiamo richiamato il governo ad ogni sforzo per favorire la ripresa economica e ci siamo impegnati come Chiese a «collaborare con l’esecutivo per la rimozione di ogni forma di sanzione imposta negli anni al nostro Paese». Per quanto riguarda il sistema elettorale abbiamo chiesto «la riforma immediata e il ristabilimento della fiducia verso il voto del popolo. La realizzazione di elezioni libere e giuste nel 2018 perché la transizione possa essere accettata da tutti sia internamente che esternamente»».

 

Qual è stato il ruolo delle Chiese in questi lunghissimi anni di tensioni?

«Le Chiese sono sempre state molto attive. Le citerò solo alcune delle iniziative che ci hanno visto protagonisti. Intanto, come detto sopra, nel 2006 abbiamo redatto il documento «The Zimbabwe We Want», un esperimento di lavoro congiunto condotto da quattro organismi ecclesiali lo Zimbabwe Council of Churches, l’Evangelical Fellowship of Zimbabwe, la Udaciza (Chiese Apostoliche) e la Conferenza episcopale cattolica. I leader di queste quattro istituzioni formano lo Zimbabwe Heads of Christian Denominations (Zhocd). Nel 2015, invece, allarmati dalla situazione del nostro Paese, abbiamo rilasciato un comunicato congiunto in cui richiedevamo di prendere misure urgenti. Nel 2016 come Zhocd abbiamo richiesto l’implementazione del National Program for Transformation e ora, vogliamo dare il nostro contributo perché questa trasformazione, finalmente, avvenga pienamente».

Luca Attanasio – VaticanInsider

28 Novembre 2017 | 07:10
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