Le nostre vite «catapultate» nell’epidemia: i consigli dello psicoterapeuta svizzero Nicola Gianinazzi

di Cristina Vonzun

Forse qualcuno di noi in questi giorni di isolamento avrà ripreso in mano «La peste» di Albert Camus oppure – pensando alla costretta convivenza di tante famiglie, «Il Diario di Anna Frank». Le domande incarnate dai protagonisti rimbalzano nella mente e nel cuore. Nicola Gianinazzi, membro di comitato dell’Associazione svizzera delle psicoterapeute e degli psicoterapeuti, ci aiuta ad appropriarci del «nuovo mondo» che anche noi stiamo sperimentando e dentro il quale l’epidemia ci ha, nostro malgrado, improvvisamente catapultati.

Il coronavirus sta cambiando la nostra vita. Un mese fa è già passato remoto. Il presente è in continua evoluzione: la vita in isolamento, le comunicazioni di nuove misure che toccano tutti quanti. Come abitare questo mondo «nuovo», variabile e incerto?

Due settimane fa abbiamo appreso la notizia dell’ultima Messa con il popolo in Ticino, una cosa mai successa nella storia della Chiesa. Quindi è persino relativo l’aggettivo «nuovo», siamo dentro piuttosto ad un cambiamento nei nostri comportamenti e abitudini, velocissimo e continuo. Evidentemente i cambiamenti repentini possono favorire l’ansia primaria da catastrofe e il panico. È importante quindi che la comunicazione venga data dalle autorità competenti in modo uniforme. I ruoli nel grande gruppo vanno mantenuti e riconosciuti proprio per gestire quest’ansia primaria: c’è chi ha le capacità e chi ha i bisogni e ognuno deve giocare il suo ruolo: lo Stato e i cittadini, l’autorità ecclesiale e i fedeli.

Riceviamo informazioni e cerchiamo informazioni: come vivere in modo sano ed equilibrato questa dinamica?

Bisogna imparare a gestire il proprio accesso all’informazione, cercando un equilibrio tra la responsabilità di informarsi, il senso di realtà e la necessità di non angosciarsi e angosciare il prossimo. Questo vale anche per chi comunica. Per esempio, quando si dice che il coronavirus «non è un’influenza» è vero, ma si dovrebbe anche dire che «non è il vaiolo», ma lo si tace spesso. Ci sono poi i social: sappiamo che l’algoritmo di Facebook continua a proporre agli stessi utenti gli stessi tipi di post pubblicati da altri contatti «amici». Se si leggono o postano notizie di un certo tipo, può crescere esponenzialmente l’ansia e la paura in chi le pubblica e nei suoi contatti.

C’è un metodo per gestire le emozioni di queste settimane?

Davanti alle novità del vivere quotidiano, un metodo può essere quello di ricondurle a delle esperienze che appartengono al nostro passato. Faccio un esempio: la mamma che ti curava la varicella e non ti faceva uscire di casa, è un esempio di isolamento o quarantena che molti di noi hanno vissuto nell’infanzia, che diventa utile per collocare psicologicamente l’attuale quarantena.

L’isolamento prolungato all’interno dello stesso nucleo famigliare è un’altra sfida: dalla convivenza forzata, all’e-learning dei figli, fino al telelavoro dei genitori. Ci sono anche famiglie con situazioni sanitarie precarie. Come vivere la quarantena a casa?

Credo che sarà la sfida che costerà di più sul piano psicologico. In questo momento ho presente dei ragazzini autistici che normalmente aiutiamo a vivere nella realtà e adesso sono chiusi in un ritiro totale completo. In generale, siamo passati tutti dall’iperattività ad una vita totalmente concentrata. I genitori devono seguire i ragazzi nella scuola online. Siamo improvvisamente costretti a fare tutti, tutto, da casa.  Ma anche parlare al telefono con amici stanca molto di più, perché la voce, la relazione, risulta impostata su parametri differenti. Il nostro cervello, di fatto, è costituito per delle relazioni reali e non virtuali.

Quali consigli può dare ai nuclei famigliari in convivenza forzata?

Dimenticarsi il perfezionismo e concentrarsi sull’essenziale. In tutte queste situazioni di stress il perfezionismo è pericoloso, può portare ad un esaurimento delle risorse personali o alla depressione. Si dovrebbero suddividere gli spazi, decidersi per dei contenitori precisi. Il nostro cervello è fatto per una realtà fisica: abbiamo bisogno di stare in un luogo preciso per fare quel certo lavoro, distinguendo simbolicamente gli spazi di lavoro da quelli dedicati al tempo libero. Poi è importante non starsi troppo addosso nei luoghi comuni, perché la convivenza molto prossima alla fine stanca.

Cos’è l’essenziale in questo tempo?

Imparare ad ascoltare il sussurro della vita, che è quello che tiene, quello che ha un senso davanti alle domande ultime. Fino a due settimane fa nessuno avrebbe sentito sulla propria pelle la domanda «Vivremo in eterno?», oggi sì e c’è una risposta: «Siamo mortali!». Poi è vero che è una malattia non mortale per tutti, ma che pone forte la domanda, perché siamo confrontati con la finitezza, siamo dentro la dinamica di un lutto collettivo ed il fatto che sia collettivo lo rende più amplificato ed intenso. Vado a fare la spesa e c’è un senso di pericolo, di allarme, di fatto, di morte. Quindi siamo bombardati da sensi depressivi. Dentro tutto questo va trovato un equilibrio, il senso giusto della finitezza, della fragilità, del bisogno di una fede che vada anche oltre la vita terrena. Lo sguardo interdisciplinare sulla persona da riacquisire va dalla medicina al discorso su Dio, alla teologia. L’unica certezza che abbiamo scoperto in questo periodo dove «l’incertezza è la certezza del momento», è che la certezza di essere eterni, semmai può arrivare dalla fede.

Nicola Gianinazzi con la figlia (Foto Ammann)

Cristina Vonzun

28 Marzo 2020 | 19:00
Tempo di lettura: ca. 3 min.
Condividere questo articolo!