L’arcivescovo di Tunisi: carceri e disagio terreno fertile per l’Isis

Monsignor Ilario Antoniazzi, arcivescovo di Tunisi, quali sono i suoi pensieri dopo lo speronamento del barcone, la notte tra il 7 e 8 ottobre, con settanta migranti da parte della nave della marina militare tunisina, che ha provocato un naufragio con decine di morti?

«La morte dei migranti è sempre un dramma. Sono persone che fuggono da miseria, guerre… e cercano una vita migliore. Si illudono di trovare in Europa il paradiso terrestre. L’incidente in mare con la marina tunisina ha impressionato molto perché la rotta per l’Italia si era quasi estinta. È stato un ritorno alla triste realtà del passato».

 

Che ruolo ha dunque la Tunisia in questo momento? Come si sta organizzando dopo la chiusura della frontiera libica?

«Pensavamo che la chiusura della frontiera con la Libia non influenzasse più di tanto la vita tunisina. È la Tunisia il paese più sicuro nel Maghreb. Ma non si può chiudere il deserto e il mare ermeticamente; inoltre, per i disperati che si trovano nei campi profughi clandestini in Libia, l’unica salvezza si trova nel «rischiare la vita» per arrivare in Tunisia, che vuol dire la fine dell’incubo libico. Dunque oggi la Tunisia si trova d’innanzi una nuova sfida, perché si sta aprendo una nuova rotta verso l’Italia, e abbiamo l’impressione di essere solo agli inizi. Stiamo tornando al tempo di Lampedusa e delle prime carrette del mare: una volta arrivavano in Tunisia per andare in Libia, ora scappano dalla Libia e ricominciano a partire da qui, perché sanno che con gli accordi attuali è complicato andare in Italia».

 

Da dove partono di preciso i migranti? E in che condizioni affrontano il viaggio?

«Soprattutto dalle coste tra Sfax et Sousse. La zona è piena di piccoli porti di pescatori. I migranti possono trovarvi da vivere e approfittare delle imbarcazioni dei pescatori che, facilmente, arrivano sulle coste italiane. Basta formare un gruppo, aver soldi per pagare e rischiare di partire verso «il paradiso terrestre» italiano. Era il caso del barcone speronato vicino a Sousse».

 

Come si potrebbero fermare concretamente queste partenze?

«La Tunisia fa già il possibile. Ma credo che la questione principale sia un’altra».

 

Quale?

«La spiego con un esempio. Se la casa è inondata dall’acqua è inutile chiedersi come fare per liberarsi dalle acque: i tubi sono scoppiati altrove. Ecco, la Tunisia sopporta le conseguenze di «tubi scoppiati altrove». La causa e dunque la soluzione non sono qui, ma nei rispettivi paesi di provenienza di chi emigra disperatamente. Se non si risolvono i problemi all’origine, i migranti ci saranno sempre».

 

In questi viaggi drammatici c’è il rischio di infiltrazioni terroristiche?

«Il rischio esiste. Però bisogna notare che i criminali degli attentati in Europa avevano spesso la nazionalità del posto. Le possibilità di infiltrazioni terroristiche sono molte, soprattutto dalla Libia, nostra prima vicina, o da luoghi da cui delinquenti vari scappano per sfuggire alla giustizia, si rifugiano in Tunisia e poi cercano la «libertà» in Italia e in Europa».

 

Dopo l’arresto del tunisino Anis Hannadi, fratello dell’attentatore di Marsiglia, e considerando che la Tunisia è un paese con altissimo numero di foreign fighters in Siria, quali sono le sue idee in merito? In particolare che cosa pensa del rapporto tra carcere e radicalizzazione?

«Non si può negare che la Tunisia, malgrado sia il paese che ha dato il più gran numero di combattenti per «l’altare del martirio», è ancora il paese più stabile e più sicuro del Maghreb, e – lasciatemelo dire – più sicuro di parecchi paesi europei. Esiste un buon controllo dei servizi di intelligence tunisina. Poi, come dappertutto, la prigione non è la migliore scuola per insegnare i valori».

 

In che senso?

«L’Isis sa che le persone più fragili sono i bisognosi, i disoccupati, le persone con problemi famigliari, e così promettono somme di denaro per loro e le loro famiglie. Lo Stato islamico sa bene che il vuoto spirituale che vivono i nostri giovani, deve essere colmato e lo fanno benissimo offrendo falsi valori religiosi, spirituali e un paradiso frutto di un martirio, di una lotta per difendere la religione dai miscredenti. Dunque, un «terreno fertile» con queste situazioni di disagio, è ovviamente il carcere. Allo stesso tempo, per gli stessi motivi non mi ha mai meravigliato che giovani europei che hanno ogni ben di Dio dal punto di vista materiale, adottino le idee dell’Isis e combattano al suo fianco».

 

Ma pensando ai foreign fighters, c’è un rischio indottrinamento nelle carceri?

«I foreign fighters non escono dalle carceri con la stessa facilità degli altri, però la domanda è: si esce migliori dalla prigione o più indottrinati di prima? Basta vedere in Europa come molti si siano radicalizzati in carcere».

 

Che cosa pensa del recente «condono» da parte del presidente della Tunisia Beji Caid Essebsi che ha aperto le porte delle carceri a chi aveva scontato la pena per furto o spaccio?

«Ci si domanda se queste persone siano rimaste qui o siano partite verso l’Italia. È gente che ha già scontato la pena. Ma ci si chiede in che condizioni queste persone siano uscite dal carcere».

Domenico Agasso – VaticanInsider

27 Ottobre 2017 | 07:20
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