L'abate Mauro Lepori.
Ticino e Grigionitaliano

L'abate Mauro Lepori rilegge per catt.ch alcuni aspetti dell'Enciclica «Fratelli Tutti»

Ci stiamo avvicinando al Natale dentro tante incertezze ed incognite dovute alla pandemia. Sono molte le ferite che il Covid-19 ha evidenziato. Il Papa rilancia la sfida con una parola forte «Fraternità». Ne parliamo con il ticinese padre Mauro Lepori, abate generale dell’Ordine cistercense.

Abate Lepori, la fraternità non è però solo un messaggio sociale. Cosa dice questa parola al cuore umano?

È come se questa Enciclica riaprisse un cammino davanti all’umanità disillusa nelle sue speranze. La pandemia ha mostrato e mostra tutte le nostre fragilità, soprattutto quelle che nascondiamo, o facevamo finta di non vedere perché le subiscono gli altri. Però non è la crisi in se stessa che può indicarci un cammino. Le crisi sono momenti in cui ci dobbiamo fermare perché non sappiamo come andare avanti. La direzione deve indicarla qualcosa che va al di là della crisi e che, portandoci oltre la crisi, le dà un senso positivo, nonostante tutto. Il pericolo in simili situazioni è quello di offrire false speranze, di perseguire progetti o strategie che ci illudono di andare avanti, e invece si ritorna sui passi già perduti. Fratelli tutti è provvidenziale perché, proprio in questo momento, propone una prospettiva di conversione e di lavoro che tiene conto di tutti i fattori della crisi, ma anche di tutti i fattori dell’umano. Propone un cammino che parla ad ogni uomo, in qualsiasi condizione si trovi, perché è un cammino a cui la natura umana è chiamata dall’origine fino al suo destino ultimo: il cammino della vita come relazione di fraternità per vivere da figli e figlie di un Dio che, comunque lo si concepisca, è un Dio di amore che chiama all’amore. L’uomo moderno non è più abituato a capire così la fraternità.

Qual è allora l’idea di fraternità dell’Enciclica?

La «fraternité” della rivoluzione francese, o altri tipi di fratellanza perseguiti da altre rivoluzioni, è ultimamente un progetto umano, in funzione di altro, che non attinge alla coscienza che l’uomo è creato per questo. La conseguenza è che queste «fratellanze» sono sempre esclusive, sono un legame di amore solo con chi persegue lo stesso progetto, con chi ha le stesse idee, anche quelle di odio verso altre persone, altre classi, altre razze e religioni. Il cristianesimo ha portato nel mondo una fraternità ontologicamente universale, perché fondata su un Padre che ha creato ogni essere umano a sua immagine e su Cristo che è morto per tutti. Anche chi non condivide la fede cristiana, condivide la stessa umanità e se è vero con se stesso riconosce che nessuno è fatto per odiare l’altro, ma per essergli fratello. L’Enciclica ci ricorda con totale chiarezza che l’impegno per la fraternità non si fonda solo sulla condivisione di un valore, ma dell’essere profondo dell’uomo, che possiamo chiamare cuore.

Cos’è la fraternità in rapporto al messaggio di salvezza di Gesù? 

Direi anzitutto che la fraternità è Vangelo vissuto. Se la «buona novella» di Cristo Salvatore non cambia tutti i nostri rapporti nel senso della fraternità, almeno come coscienza e desiderio del nostro cuore, vuol dire che il Vangelo non ci raggiunge veramente, non entra nella carne della nostra vita, e quindi non può neppure penetrare nel mondo. Il Papa in Fratelli tutti medita a lungo sulla parabola del buon samaritano. La si potrebbe prendere anche per farci capire come il Vangelo, e la nostra fede in Cristo, devono incarnarsi in rapporti fraterni, altrimenti «passano via» come il sacerdote e il levita che non toccano l’uomo ferito, che non si coinvolgono come il samaritano. La fraternità, prima che un portare il Vangelo nel mondo, è un permettere al Vangelo di giungere a noi, nel nostro cuore, nella nostra vita, nei nostri rapporti. Chi è cambiato di più in bene nella parabola non è tanto il ferito che ritrova la salute, ma il samaritano che ha permesso alla carità di coinvolgere tutta la sua persona, il suo cuore, il suo tempo, i suoi soldi. Cristo ci salva donandoci di esprimere il suo amore salvifico per ogni uomo.

Il problema dell’individualismo torna in forme diverse nel testo di Bergoglio. Perché questa insistenza?

Il Papa, usando una metafora a cui siamo molto sensibili di questi tempi, scrive che «l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere» (105). L’individualismo, pur richiudendo l’individuo su di sé, è contagioso come un virus. Come mai? Forse perché ha il fascino del frutto proibito del paradiso terrestre, il fascino di desiderare una felicità esclusiva, che gli altri non hanno, e questo ci illude di valere più degli altri. In realtà, ogni valore che ci diamo da noi stessi è un inganno, non esiste, perché contraddice la natura del nostro cuore, contraddice la nostra natura di creature fatte ad immagine di un Dio che è Trinità di Persone totalmente donate le une alle altre, senza alcun ripiegamento di sé. L’individualismo è la ricerca di un’identità che non corrisponde alla nostra natura. La nostra vera identità è la comunione. Non è un problema nuovo, o solo del mondo laicizzato. Quanto individualismo è presente anche nelle comunità religiose! D’altronde, già san Benedetto nella sua Regola, e prima di lui i padri del deserto, lottavano contro questo virus. In fondo, l’individualismo si alimenta su una concezione falsa, isolata e autoreferenziale dell’»io». La vera natura dell’»io» è invece quella di lasciarsi definire dal «tu», dall’altro, dal prossimo. Per uscire dall’individualismo abbiamo bisogno di scoprire che in realtà l’altro possiede il segreto della mia felicità, della pienezza della mia persona. Perché l’altro è lo spazio in cui mi è dato di poter dilatare me stesso nell’amore. Anche il buon samaritano poteva essere un individualista in giro per i suoi affari. Ma quel giorno ha ricevuto la grazia di essere attratto dall’uomo ferito come un’opportunità misteriosa di uscire dal suo cerchio e scoprire la libertà di un dono che quando inizia davvero non ha più limiti, non ha fine. In Fratelli tutti c’è una bellissima formulazione di questo avvenimento: il samaritano è stato «disponibile ad aprirsi alla sorpresa dell’uomo ferito che aveva bisogno di lui» (101). La sorpresa scatta di fronte ad una bellezza, a qualcosa che attrae. Il poveraccio pestato e ferito non era certamente bello da vedere. Ma il richiamo all’amore, alla fraternità, a vivere la cura dell’altro e la comunione con lui, questo sì è bellezza, perché è un mistero che attrae il nostro cuore a corrispondere alla sua natura e vocazione, fino all’eternità. Così, anche il samaritano diventa bellezza che attrae a questo. Non si esce dall’individualismo se non siamo sorpresi sia dall’uomo ferito che dall’uomo che lo soccorre. Oggi abbiamo bisogno di questa sorpresa più che mai. Di fratelli e sorelle feriti ce ne sono molti, ma spesso non li vediamo. Ci sono anche i buoni samaritani, persone che, magari solo per un momento, un sorriso, un gesto, una parola, ci propongono la sorpresa dell’amore gratuito. Ma anche la sorpresa è una gratuità, e dobbiamo essere certi che Dio, malgrado la nostra durezza di cuore, non fa mai mancare anche all’uomo d’oggi la sorpresa di fronte alla ferita dell’altro e della carità che risponde.

Oggi c’è paura per il virus e per l’economia. Come fare a non cedere allo scoraggiamento?

Cosa ci dà veramente coraggio? Se stiamo attenti vediamo che non è mai «qualcosa» ma «qualcuno». Certo abbiamo bisogno di beni, anche di benessere; abbiamo bisogno di salute, abbiamo bisogno di lavoro e sicurezza. Ma solo se questi beni sono garantiti da persone responsabili, su cui possiamo contare perché vogliono il nostro bene, allora ritroviamo speranza, serenità nel vivere. Penso alla figura del buon pastore che Gesù ci propone nel Vangelo, ma che troviamo descritto già nell’Antico Testamento, come nel salmo 22: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla». In fondo il Papa richiama tutti, a cominciare da chi ha responsabilità sociale, nella politica, nell’economia, nella sanità, ad assumere la cura del popolo, ad essere persone animate da una carità che ha in mente sempre le persone, soprattutto le più fragili, anche quando si tratta di economia e finanza. Ma anche ognuno di noi, nella sua piccola quotidianità, può esprimere questa cura, questa attenzione, che semina speranza, che incoraggia a vivere l’oggi senza scoraggiamento, perché il fratello, la sorella che pensa a me esiste, è presente, e anche se non potrà fare miracoli per me, la sua carità è già il miracolo più grande, perché io ho bisogno anzitutto di non sapermi solo e abbandonato.

C’è una missione rinnovata della comunità ecclesiale che si coglie in Fratelli tutti e quale? 

Forse proprio quella di essere veramente comunità fraterna che attinge la carità dall’adorazione del Padre. In Cristo ci è data la grazia di essere figli di Dio. Non c’è fondamento più solido della fraternità universale che la grazia del battesimo. Il Papa ci ricorda che l’essenziale per i credenti è «l’adorazione di Dio e l’amore del prossimo» (FT 282). È così che la comunità cristiana vive la sua natura di Corpo di Cristo teso ad accogliere tutta l’umanità nella famiglia di Dio. Le comunità cristiane sono chiamate a tornare a vivere quello che sono: luoghi di comunione, non solo in funzione di opere o a difesa di idee e valori, ma che incarnano una missione universale, quella del Padre che manda il suo Figlio ad abbracciare ogni uomo, soprattutto se lontano, per renderlo figlio suo.

Più nel concreto quali cammini si dischiudono alle comunità cristiane?

Le comunità ecclesiali sono chiamate ad essere un po’ il cantiere dell’umanità rinnovata, quindi dei luoghi in cui si lavora coscientemente alla costruzione della fraternità. Per questo, devono essere le prime ad abbracciare quelle piste di conversione alla fraternità che Papa Francesco descrive con paterna precisione, per esempio come crescere nel dialogo, nella riconciliazione, nella cura degli ultimi. Se non facciamo questo cammino nelle nostre comunità non possiamo pretendere che il mondo diventi migliore, più umano e fraterno, perché è come pretendere che gli altri possano riscaldare e illuminare nascondendo loro il fuoco. Gesù ha detto, anzitutto ai suoi discepoli: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49) L’amore fraterno è un fuoco che Cristo ci comunica dalla mangiatoia di Betlemme alla Croce e che la comunità cristiana deve sempre attizzare, anche lasciandosene consumare, come la legna o la cera, perché possa trasmettersi al mondo intero.

Cristina Vonzun

L'abate Mauro Lepori.
25 Dicembre 2020 | 00:01
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