Internazionale

La sfida dell'Indonesia: sconfiggere il radicalismo islamico

 

L’arcivescovo Ignazio Suharyo, che guida la diocesi di Giacarta e presiede la Conferenza episcopale indonesiana, con quella pacatezza che è indice di saggezza ed esperienza, parla a Vatican Insider del «miracolo indonesiano»: rileggendo la storia della nazione, Suharyo ritiene che l’anima multiculturale del Paese (proprio quella che si celebra nell’Asian Youth Day) garantirà l’immunità dal virus dell’estremismo che ha attaccato cellule sane dell’islam indonesiano. Quell’anima, la comunità cattolica dell’arcipelago (circa il 3% su 250 milioni di cittadini all’85% musulmani) sente di averla fieramente in petto, con ogni diritto e convinzione.

 

Qual è il ruolo dei cristiani nell’attuale fase storica che vive la giovane democrazia indonesiana?  

«Vorrei rispondere in primis ricordando che multiculturalismo, tolleranza e diversità religiosa sono costitutive dell’Indonesia. La nazione ha 17mila isole, oltre 3mila gruppi etnici e altrettante lingue locali. Si può dire, dunque, che l’Indonesia, come nazione unica, è «un miracolo». Rileggendo la storia della nostra repubblica, va ricordato che il movimento indipendentista è nato nel 1908 (prima vi erano molti regni e sultanati). Solo vent’anni dopo si elaborò una Carta che metteva nero su bianco tre promesse: uno stato, un solo linguaggio, una sola nazione. Nel 1928 si celebrò una importante assemblea del movimento nazionalista in un’aula del centro giovanile cattolico oggi incorporato nella cattedrale di Giacarta. Finchè, nel 1945, fu proclamata l’indipendenza e, nella Pancasila, la Carta dei cinque principi alla base della nazione, il primo incorpora proprio il documento firmato a Giacarta vent’anni prima. Il 18 agosto 1945 l’allora vice presidente Mohammed Atta consultò tutti i leader islamici e raggiunse velocemente il consenso a fondare non una teocrazia, ma una nazione basata sulla Pancasila. Questa è la storia di salvezza della nostra nazione, che continua ancora oggi. E noi cattolici ci siamo dentro pienamente, fin dall’inizio: tanto che ogni anno celebriamo una speciale Eucarestia per l’indipendenza del Paese, con una particolare formula anche nei testi liturgici e nel messale. La celebriamo con orgoglio e con gratitudine».

 

Com’è la situazione oggi? Vi sono fermenti radicali o gruppi estremisti?  

«Oggi l’intolleranza religiosa fa capolino nella società. Le sfida è reale e non bisogna negarlo. Negli ultimi 15 anni i governi non hanno fatto abbastanza per fermare i gruppi radicali islamici e li hanno sottovalutati. È cresciuta anche la strumentalizzazione politica della religione. I problemi sorgono quando la religione viene usata come mezzo per ottenere il potere. La dinamica politica si snoda intorno a tre attori principali: i gruppi radicali islamici, che hanno la loro agenda; uomini politici che perseguono scopi di potere; imprenditori e businessman che sostengono i politici per i propri interessi di profitto. Queste tre parti della società si sono coalizzate, per esempio, per colpire l’ex governatore di Giacarta, il cristiano Basuki Purnama detto «Ahok», che è in carcere per presunta blasfemia. Ma il loro reale obiettivo ora resta il presidente Joko Widodo».

 

Da Pastore di Giacarta, come ha vissuto la vicenda di Ahok, tuttora in prigione?  

«È stata una vicenda molto dolorosa. Tutto è cominciato nel settembre dello scorso anno, quando un leader musulmano ha accusato Ahok di aver mancato di rispetto al Corano. Ha preso il via una campagna di delegittimazione ai suoi danni e una mobilitazione dei gruppi radicali islamici come Hizbut Tahrir Indonesia e Front Pembela Islam. Abbiamo vissuto momenti di grande tensione per le imponenti manifestazioni di piazza, e la polizia è stata molto abile a gestirle, prevenendo scontri e violenza di massa. Certo, anche Ahok poteva essere più prudente e non prestare il fianco a questa offensiva. Molti cittadini musulmani ne apprezzavano l’operato politico, poi la vicenda è precipitata e anche il consenso è calato. L’ho incontrato in prigione e l’ho trovato abbastanza su di morale. È convinto di aver agito secondo giustizia e di essersi sacrificato per il suo Paese. È vero: grazie a lui, la sfida della presenza del radicalismo islamico sulla scena politica è venuta alla luce. C’è maggiore consapevolezza nel governo e tra la gente. Le carte ora sono scoperte e questo è positivo».

 

Quali sono le strade per contrastare queste tendenze radicali?  

«La posizione del governo oggi è molto chiara e noi la sosteniamo pienamente. Anche i militari, altro potere tradizionalmente forte in Indonesia, sono a fianco del presidente in questa lotta. Il recente provvedimento sulla messa al bando dei gruppi che attentano alla Pancasila costituisce un primo passo. Sono fiducioso. La strada intrapresa è quella giusta per preservare lo spirito autentico dell’Indonesia. È determinante, poi, il contributo delle maggiori organizzazioni dell’islam indonesiano, come Nadhlatul Ulama e Muhammadiya. Incontrando il presidente Widodo, alla presenza dei leader musulmani, ho espresso l’auspicio che queste organizzazioni, con milioni di seguaci, siano in prima linea in questo snodo cruciale per il futuro del Paese. Hanno la forza e il consenso necessario per affrontare questa sfida, anche se all’interno della Muhammadiya vi sono leader e correnti che strizzano l’occhio ai radicali. Se il governo, i militari e le grandi organizzazioni islamiche saranno uniti, la nazione saprà superare questo delicato momento».

 

Oltre al radicalismo islamico, quali sono le altre priorità per la società?  

«Altri problemi che viviamo sono la corruzione e la diffusione della droga: sono mali che corrodono la nazione. La droga è un mezzo per fare soldi facili, ma le conseguenze sono devastanti, specie sui giovani. E la legislazione indonesiana punisce molto severamente, anche con la pena di morte, i reati legati alla droga. La corruzione, poi, è diffusa a tutti i livelli. È un connubio tra soldi, potere e sesso. Come vescovi abbiamo affrontato questo nodo e avviato appositi gruppi di studio sull’etica sociale. Bisogna partire dai giovani per formare una coscienza retta, che promuova l’onestà e i valori evangelici anche nel business».

 

Resta fiducioso sul futuro della Nazione?  

«Certo. Fin dai primi passi mossi dalla Chiesa in Indonesia, secoli fa, la speranza ha guidato il nostro cammino. Non è semplice ottimismo, è invece un forza che viene dalla fede ed è dono di Dio. Si basa sulla certezza che Dio è un Padre che si prende cura dei suoi figli. Questa è la nostra visone per l’Indonesia del domani. anche quando i tempi sembrano bui, il Signore mostrerà una luce, aprirà una via nel deserto e il suo popolo vivrà».

 

Come è visto papa Francesco in Indonesia?  

«Il Papa è ammirato e apprezzato. Documenti come «Evangelii Gaudium«, «Laudato si’«, «Misericordiae vultus» hanno destato grande interesse. Ma a colpire l’opinione pubblica sono soprattutto i suoi gesti, che hanno un’eco fortissima anche sulla comunità musulmana. Hanno una sconvolgente carica profetica che ha un impatto sulla gente, più delle parole. Preghiamo che un giorno possa venire in Indonesia. Anche il nostro presidente Widodo lo vuole. Noi tutti lo speriamo».

Paolo Affatato – VaticanInsider

8 Agosto 2017 | 12:00
Tempo di lettura: ca. 4 min.
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