La difficile situazione dei popoli dell'Amazzonia

Isolati nella giungla sì, ma anche volutamente ignorati, per poter meglio sfruttarne le risorse. È l’allarme lanciato dalla Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) a proposito delle oltre 150 popolazioni indigene che vivono isolate dalla cosiddetta civiltà e che rischiano l’estinzione.

«L’esistenza di questi gruppi è frequentemente negata o resa invisibile, cosa che in molti casi facilita l’autorizzazione di attività economiche che toccano direttamente i loro territori» mentre «nonostante la contundenza del quadro normativo internazionale che protegge i loro diritti, verifichiamo che tali norme sono sistematicamente ignorate dagli stati», si afferma nella «Dichiarazione in difesa della vita dei Popoli indigeni in isolamento volontario (Piiv)», di cui è stata data lettura nell’incontro che si è tenuto dal 5 all’8 luglio a Puerto Maldonado, in Perú.

Si definiscono «in isolamento volontario» – da qui la sigla Piiv – o «non contattati» i gruppi di indigeni che, nonostante l’invasione del loro territorio, si sono salvati dallo sterminio, sono riusciti a evitare di disperdersi e hanno scelto di non assimilarsi allo stile di vita occidentale, optando di non mantenere contatti con la civilizzazione «bianca» e preservare la loro autonomia.

Il laico missionario della Consolata Luis Ventura, del Centro indigeno missionario (Cimi) del Brasile, incaricato di coordinare l’asse di lavoro dei popoli indigeni della Repam, ha spiegato che i Piiv «sono sottomessi a minacce molto gravi, come l’avanzamento della depredazione forestale e mineraria industriale, dell’agricoltura estensiva meccanizzata, che aumentano sempre di più la loro pressione».

«I popoli in isolamento volontario hanno preso la loro decisione a seguito di situazioni traumatiche, molto spesso tragiche, e i contatti che avvengono finiscono spesso in tragedia. Per questo dobbiamo avere un profondo rispetto, dal punto di vista etico, per quanto queste persone hanno deciso e garantire la protezione del loro territorio, che permette loro in definitiva di preservare la loro stessa vita».

Anche a Puerto Maldonado, come nel primo incontro svoltosi a Cuiabá, in Brasile, nell’aprile scorso, erano presenti rappresentanti di comunità indigene che hanno contatti con comunità in isolamento volontario, che sanno dove si trovano e dove circolano, ed esponenti di popoli contattati recentemente, 20 o 30 anni fa, «importantissimi — aggiunge Ventura — per permetterci di capire meglio la situazione attraverso la condivisione della loro esperienza».

All’ultimo incontro erano rappresentati Brasile, Perú ed Ecuador, mentre la Bolivia ha fornito gli ultimi dati disponibili. Solo in questi quattro paesi, senza contare la Colombia, il Venezuela e forse la Guiana, «si calcolano circa 150 popoli o parte di popoli in isolamento volontario. Una realtà consistente, che va rispettata».

Il documento dell’incontro denuncia che «continuano ad avvenire contatti forzati» e avanza anche l’invasione degli spazi dei Piiv (»Popoli in isolamento volontario») «in uno scenario di omissione da parte degli stati, situazioni che espongono i popoli indigeni a diverse forme di violenza e persino massacri».

Ventura ha illustrato all’agenzia Fides il lavoro della Repam e dei suoi partner — il Cimi, il Coordinamento delle Organizzazioni Indigene dell’Amazzonia Brasiliana, il Centro amazzonico di antropologia e applicazione pratica, l’università federale dell’Amazonas e i vicariati di Aguarico (Ecuador) e di Madre de Dios (Perú): «Otteniamo informazioni circa i luoghi dove vivono i Piiv attraverso persone in genere indigene prossime ai loro territori che ci segnalano avvistamenti, incontri casuali, rilevano loro vestigia nella foresta o, ancora, raccolgono storie circa la loro presenza nel passato, che rendono possibile la loro persistenza nella zona. Ci giungono segnalazioni anche da manovali e operai di aziende forestali che avanzando nella selva si incontrano o si scontrano con loro. Cerchiamo poi di determinare con la maggiore precisione possibile le informazioni ricevute e di contrastarle con quelle dell’organismo indigenista dello stato». I dati rimangono riservati, «affinché non cadano nelle mani di gruppi o persone interessate per motivi opposti ai nostri», specifica il missionario. «Non appena individuiamo segni della loro presenza o quando giungiamo a luoghi nei quali la gente del posto ci avvisa di questa possibilità, ci ritiriamo. La nostra intenzione è di proteggere e far rispettare da altri la loro decisione dell’isolamento volontario». «I Piiv sono soggetti di diritto», afferma Ventura, «con diritti territoriali, primo fra tutti quello all’esistenza».

In seguito all’incontro di inizio luglio si sono stabiliti tre livelli di lavoro. Il primo è quello panamazzonico: «L’articolazione tra tutti coloro che si occupano della difesa dei Piiv nei singoli paesi, per avere una visione comune, socializzando le conoscenze legali, le metodologie di lavoro e le strategie utilizzate localmente per i contatti con gli stati al fine di incidere sulle politiche e sull’opinione pubblica». A livello nazionale, ci si prefigge di fare fronte comune in ogni paese e di proteggere i Piiv nelle zone di frontiera, dove gli indigeni si muovono «senza far caso ai limiti nazionali», secondo quanto loro riconosciuto dal diritto internazionale. Il terzo livello è quello ecclesiale: «Portare alla Chiesa e alla società questa problematica, anche nel quadro del processo del sinodo per l’Amazzonia. Accogliere e difendere i diritti dei Piiv è chiave per lo sviluppo della regione. Il Papa l’ha sottolineato proprio a Puerto Maldonado, a gennaio scorso: «Da questa preoccupazione sorge l’opzione fondamentale per la vita dei più indifesi. Sto pensando ai (…) popoli indigeni in isolamento volontario. Sappiamo che sono i più vulnerabili tra i vulnerabili. (…) Continuate a difenderli. La loro presenza ci ricorda che non possiamo disporre dei beni comuni al ritmo dell’avidità del consumo»».

L’Osservatore Romano, 2-3 agosto 2018

3 Agosto 2018 | 11:34
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