La Biblioteca vaticana nuovo protocollo di diffusione dei manoscritti in rete

I molteplici progetti di digitalizzazione che molte biblioteche stanno attuando rendono sempre più agevole l’accesso ai manoscritti da parte degli studiosi in ogni parte del mondo. La Biblioteca apostolica vaticana ha già posto in rete, per essere liberamente consultati, più di quattordicimila dei suoi ottantamila manoscritti. Ma non basta. Per venire incontro alle esigenze sempre più raffinate degli studiosi, era necessario fare un ulteriore passo.

È certo proficuo, infatti, poter consultare da casa propria o dal proprio luogo di studio un manoscritto, sfogliarlo, ingrandirne i particolari, analizzarne il testo e le miniature, interpretarne le annotazioni marginali e altro ancora. Ma spesso è anche necessario confrontare un manoscritto con un altro, per riscontrarne le differenze e le consonanze del testo, per individuare la grafia del copista, per paragonare fra loro le raffigurazioni e gli stili decorativi, per individuare il tipo di glosse che accompagnano un determinato testo.

Recentemente è stato introdotto il termine «interoperabilità» per indicare lo sforzo tecnologico che cerca di far fronte a questa esigenza, per esprimere la possibilità di scambiare informazioni o servizi fra sistemi informatici, facilitando la loro reciproca interazione. Per quanto riguarda i manoscritti, questa ricerca è iniziata nel 2012 all’università di Stanford, quando un gruppo di esperti della divisione Digital Library Systems and Services si posero il problema di rendere fruibili nel web le immagini digitali dei manoscritti, insieme a tutto il materiale documentario di corredo che può accompagnarle (la descrizione di un catalogo, annotazioni dettagliate a commento di particolari elementi, informazioni su uno studio in corso sull’argomento), abbattendo al contempo le barriere esistenti tra le basi di dati: ciascuna di queste basi di dati, infatti, gestisce il proprio patrimonio informativo secondo modalità proprie, che devono essere rese «interoperabili» con le altre basi di dati.

Da tale ricerca è nato un «protocollo di interoperabilità» per la libera circolazione nella rete di dati e immagini digitali, direttamente rintracciabili attraverso i motori di ricerca e indipendenti dai software di archiviazione delle singole biblioteche. Questo standard è conosciuto come IIIF, una sigla che contiene al suo interno precisamente il termine interoperabilità: International Image Interoperability Framework.

In concreto, utilizzando una specifica tecnologia applicativa sviluppata anch’essa a Stanford, è possibile mostrare online sullo schermo del proprio computer un manoscritto digitalizzato, semplicemente richiamando l’indirizzo web a esso associato (quello che tecnicamente viene chiamato URI: Uniform Resource Identifier) e affiancarlo così a un altro manoscritto (o anche a più altri) per tutti i raffronti del caso.

L’applicazione del protocollo di interoperabilità al mondo dei manoscritti è apparsa subito di grande interesse per gli studi di filologia, di bibliologia, di paleografia, con particolare riguardo alle edizioni critiche e alla possibilità di effettuare ricostruzioni virtuali di collezioni disperse nelle varie biblioteche o semplicemente di materiali frammentari conservati in differenti luoghi.
Anche la Biblioteca vaticana ha voluto inserirsi in questo mondo di condivisione e di integrazione e, con la collaborazione del partner tecnologico NTT Data, in questi mesi ha applicato sul sito della Biblioteca il protocollo d’interoperabilità nella nuova biblioteca digitale (http://digi.vatlib.it); allo stesso tempo è entrata quale membro fondatore nel Consorzio internazionale del IIIF, che raccoglie una quarantina fra le più importanti biblioteche nazionali e di ricerca del mondo.

Il Consorzio svolge annualmente degli incontri che quest’anno hanno assunto una considerevole dimensione, dando luogo a una serie di conferenze e seminari (2017 IIIF Conference – The Vatican) che si svolgono nella settimana corrente, dal 5 al 9 giugno presso il Centro congressi dell’Istituto patristico Augustinianum.

Allo stesso tempo la Biblioteca apostolica vaticana ha promosso una speciale attività di ricerca su alcuni specifici gruppi di manoscritti, i cui risultati saranno resi disponibili precisamente nella modalità IIIF, annotando sui fogli dei manoscritti trascrizioni, commenti ai testi, alle glosse, alle miniature, alle scritture, all’identificazione di copisti, miniatori, possessori. Si tratta di vari percorsi tematici concernenti: l’evoluzione e la trasmissione dei testi in alcune opere latine classiche, i palinsesti vaticani e il recupero digitale delle loro «identità» cancellate, la biblioteca di un principe umanista esemplificata in quella di Federico da Montefeltro, un corso di paleografia greca e un altro di paleografia latina dall’antichità al rinascimento.

Questa ricerca, iniziata lo scorso ottobre 2016 e da svolgersi in tre anni, è sponsorizzata dalla Andrew W. Mellon Foundation, la fondazione newyorkese che sta sostenendo lo sviluppo dell’IIIF nelle sue più significative applicazioni. Essa rappresenta un’importante sperimentazione e si avvale della consulenza tecnica degli stessi esperti di Stanford che hanno dato inizio a questa rivoluzionaria concezione dei beni culturali divenuti, nella loro espressione digitale, una sorta di patrimonio unificato, un mare magnum su un orizzonte aperto, al servizio della conoscenza: un servizio innovativo nel quale la Biblioteca vaticana si ritrova pienamente, confermando la sua secolare tradizione.

(Osservatore Romano)

6 Giugno 2017 | 11:59
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