«L' America punta sul dialogo tra le fedi per la pace in Medio Oriente»

L’aver compreso che il dialogo tra le religioni è un tassello fondamentale del mosaico mediorientale «è un passaggio importante e positivo». L’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme, commenta con La Stampa il discorso del presidente Usa a Riad.

Trump ha rilanciato il dialogo tra musulmani, ebrei e cristiani per risolvere il dramma che vive il Medio Oriente. Che cosa pensa?

«Il fatto che la politica abbia compreso che il dialogo interreligioso è un tassello importante del mosaico mediorientale è un passaggio importante e positivo. L’elemento religioso in passato era messo a parte, perché considerato motivo di divisione. In parte purtroppo è vero, ma proprio per questo era significativo includere il contesto religioso, anche se ciò rende tutto più faticoso».

Ci sono possibilità concrete?

«Bisogna evitare di ridurre il dialogo interreligioso a dichiarazioni-slogan sulla pace, che non toccano la vita reale. Spesso, purtroppo finisce così. Ed è necessario che tutti i leader religiosi sappiano interrogarsi sulla loro responsabilità nel creare una mentalità di rispetto reciproco. In questo contesto l’alleanza con le nazioni arabe musulmane contro il terrorismo non può non fare i conti con la loro precisa e specifica responsabilità nel fare realmente qualcosa, nel chiedere e chiedersi come e da dove nasca il fondamentalismo che sta inquinando quelle nazioni. Se il dialogo interreligioso non si interroga sulla vita reale dei propri fedeli e dei problemi concreti, diventa solo uno slogan, di cui non c’è bisogno e che anzi diventa irritante».

Con il viaggio dall’Arabia Saudita Trump individua in quel mondo sunnita l’interlocutore più adatto per questo dialogo. Quali le ragioni di questa scelta?

«Il mondo sunnita istituisce quasi l’80 per cento del mondo musulmano. È chiaro che se si vuole parlare con il mondo musulmano, si deve iniziare da lì. L’Arabia Saudita, come è noto, ha un’influenza straordinaria nel mondo sunnita, sia perché i Luoghi Santi principali sono nel suo territorio, sia perché con le sue risorse economiche influisce enormemente su tutti i paesi mediorientali. Ritengo tuttavia che il motivo della prima visita in quel Paese sia legato soprattutto ai legami tradizionali ed economici che gli Usa hanno con l’Arabia e al desiderio, credo, di ridefinire la politica della nuova amministrazione Usa in Medio Oriente».

I sauditi potrebbero giocare un ruolo nella soluzione del conflitto israelo-palestinese e nell’annosa questione di Gerusalemme?

«Mi auguro di sì. Vista la loro forte influenza nel mondo arabo, i sauditi potrebbero giocare un ruolo importante nella pacificazione tra i Paesi arabi e Israele. La soluzione del conflitto israelo-palestinese, infatti, non si esaurisce solo dentro gli stretti confini dei due Paesi, ma richiede un approccio più ampio, basti pensare alla questione dei profughi palestinesi e non solo. Allo stesso tempo, però, tutto questo resta bloccato se non vi è contemporaneamente l’individuazione di soluzioni concrete tra israeliani e palestinesi, che in questo momento non mi sembra di vedere all’orizzonte. Spero di sbagliare».

È una novità che un presidente americano visiti i Luoghi Santi cristiani?

«Nel passato Bush ha visitato Cafarnao, Obama la Basilica di Betlemme e ora Trump il Santo Sepolcro. Che un presidente visiti un Luogo Santo non è una novità. In genere si preferiva evitare il Santo Sepolcro per le complicazioni politiche. La sua determinazione a volerci comunque andare è positiva. Vedremo come si evolve in futuro».

La Commissione Giustizia e Pace dei vescovi della Terra Santa ha ricordato che «la situazione politica in Israele e Palestina è lontana dall’essere normale». Che significato ha questa presa di posizione?

«Credo che la Commissione voglia richiamare a tutti l’attenzione alla questione di Gerusalemme e di non lasciare accettare nemmeno inconsciamente la politica dei fatti compiuti. Come Chiese cristiane, comunque, dobbiamo impegnarci di più a parlare della Gerusalemme cristiana ed essere capaci di un discorso attuale sul senso del nostro stare qui da cristiani e nel dire perché la Gerusalemme terrestre è ancora importante per noi e per la nostra fede oggi. È la sfida che ci aspetta nei prossimi anni».

Che cosa spera dall’incontro tra Trump e il Papa?

«Mi auguro che escano dichiarazioni e impegni a lavorare insieme e che possano individuare le priorità su cui lavorare nei prossimi anni».

(Andrea Tornielli / Vatican Insider)

 

23 Maggio 2017 | 11:58
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