Internazionale

Kenya, la ripetizione delle elezioni non risolve i problemi

I segni per temere una tornata elettorale problematica c’erano tutti. Si trattava di ripetere il voto dell’8 agosto scorso invalidato dalla Corte costituzionale (per la prima volta in un paese africano) e di richiamare alle urne una popolazione stanca di diatribe politiche che rischiano di lasciare un paese, già con molti problemi, sull’orlo della crisi. Nel frattempo, il leader dell’opposizione Raila Odinga, principale sfidante del presidente Uhuru Kenyatta, si era tirato fuori dalla competizione agitando lo spettro di nuovi brogli e chiedendo a tutto il fronte da lui guidato di boicottare il voto. Gli incidenti e gli scontri, poi, si sono ripetuti lungo tutto il periodo che ha separato le due elezioni e si è giunti al 26 ottobre con un inevitabile grosso carico di tensione.

 

Le urne si sono aperte il 26 ottobre e nei giorni precedenti e successivi ci sono stati incidenti e scontri che hanno causato la morte di almeno quattro persone e il ferimento di molte altre. Ma oltre la metà della popolazione ha disertato le urne, dando un segnale chiaro di stanchezza. Secondo i primi dati resi noti dalla commissione elettorale, infatti, si sarebbero recati a votare solo 6 milioni e mezzo di persone, meno del 35% degli aventi diritto. In alcune zone, la percentuale di votanti è stata talmente bassa da far ipotizzare un nuovo annullamento: in una decina di contee si è arrivati a fatica all’1%, in altre, neanche a quello. «Le elezioni presidenziali di giovedì scorso sono state una farsa – si è affrettato a dichiarare Odinga – si deve tornare alle urne entro 90 giorni. Il Kenya è in serio pericolo».

 

Davvero si rischia di tornare per la terza volta alle urne? E anche se Kenyatta riuscirà a insediarsi, che Paese si troverà a governare? Le divisioni profonde, rischiano di portare il Kenya all’ingovernabilità? Lo abbiamo chiesto a un religioso, in Kenya dal 1992, profondo conoscitore della realtà socio-politica, che ha chiesto di rimanere anonimo.

 

«I votanti sono stati davvero pochi. Questo è dovuto sia al boicottaggio operato dall’opposizione che alla stanchezza della gente. Nessuno aveva voglia di tornare alle urne. Da un punto di vista legale, però, non ci sarebbe alcun problema: la Costituzione dice che basta il 50% più uno dei votanti, non degli aventi diritto. È chiaro che una elezione basata sulla minoranza degli aventi diritto fa nascere quesiti sulla legittimità. Ma da quello che vedo, il Paese vuole mettersi questo capitolo alle spalle e andare avanti. L’economia è ormai in stallo da mesi e nessuno vuole continuare in un’atmosfera da campagna elettorale. L’opposizione fa la voce grossa, ma finge di ignorare il proprio recente passato: Raila Odinga non può essere certo definito un democratico. Ha soffocato con la violenza ogni tentativo di elezioni interne al suo stesso movimento perché temeva di perdere il controllo ferreo che ha instaurato. I politici del suo partito (Odm) e della coalizione d’opposizione (Nasa) lo sanno e loro stessi non vedono bene una lotta a oltranza. Vogliono piuttosto un dialogo con il governo che assicuri loro un qualche vantaggio politico e finanziario».

 

Ci sono ancora scontri?

«Al momento la situazione è calma. Gli scontri potrebbero riprendere all’annuncio ufficiale della presidenza Kenyatta. Non va dimenticato che gran parte degli incidenti sono stati istigati da Raila che dà ordini molto chiari. Più che di violenze diffuse parlerei di scontri inscenati da giovani al soldo di Odinga. La maggioranza dei dimostranti, infatti, sono di etnia Luo (quella di Odinga, ndr) e disoccupati. Sfruttano queste situazioni anche per guadagnare qualcosa – solitamente vengono pagati 500 scellini al giorno, 5 euro – e per sfogare la tensione repressa. Ci sono stati morti, certamente, ma mi creda, queste sono state le elezioni politiche più pacifiche di sempre qui in Kenya, negli anni novanta si parlava di una media di 2mila morti a elezione! La gente non vuole più disordini e morti, è stanca. Spero che non ci siano altri scontri perché il ministro degli interni ad interim (Matiang’i, ndr) non e’ uomo da farsi intenerire, se occorre non esiterebbe a dare l’ordine di sparare ad altezza d’uomo».

 

Se alla fine Kenyatta ottenesse ugualmente il mandato, si troverà a formare un governo con molti problemi, teme un lungo periodo di instabilità? O Addirittura, come dice Odinga, il Kenya rischia l’anarchia?

«Non c’è pericolo di anarchia. Uhuru Kenyatta dovrà scegliere con attenzione ministri e sottosegretari, dovrà dimostrare che il suo governo rappresenta tutti. Non sarà facile perchè un posto in più a una etnia vorrà dire un posto in meno a un’altra. L’equilibrio tra etnie (54, ndr) non e’ facile. Inoltre, i suoi alleati pretenderanno di avere la fetta più grande della torta. Il vero nodo sarà la scelta di rappresentanti di minoranze da porre alla guida dei vari istituti e agenzie parastatali. Lì girano i soldi e la possibilità di dare lavoro ai familiari e amici: il clientelismo permette di assicurarsi un controllo del territorio e la fedeltà».

 

Come si esce da questa empasse?

«Io credo che Uhuru si insedierà fra qualche settimana. Odinga sbraiterà per un po’ e poi si metterà da parte. Molto facilmente riceverà una qualche gratifica mentre la coalizione Nasa durerà per un po’ almeno per salvare la faccia. Di fatto è già sfilacciata e molte forze interne la vorrebbero far crollare. Alcuni tra i pezzi grossi di NASA mi hanno confidato che vorrebbero si sfaldasse al più presto. Altri parlamentari di peso sfoggiano unità in pubblico, ma in privato minacciano di passare con le forze governative.

L’unico vero pericolo viene dalla imprevedibilità di Raila Odinga. Potrebbe decidere di ordinare violenze ad oltranza. Questo vorrebbe dire lo scatenarsi di forze per ora pacifiche. Mi riferisco in particolare a possibili scontri entico-tribali. Se Raila fosse tanto stupido da volere il confronto violento, allora finiremmo in breve nel mezzo di una guerra civile da cui tutti usciranno perdenti. Va anche detto che molti gruppi stanno lavorando dietro le quinte per evitare lo scontro violento e favorire un dialogo. Finora non vi sono riusciti perché anche questi sono divisi lungo linee etniche. Sfortunatamente la divisione etnica è aumentata in questi anni, assumendo dimensioni impensabili qualche anno fa».

 

Qual è il ruolo di Chiesa e religiosi nel processo di pacificazione?

«Le Chiese hanno fatto molto. Mi riferisco al lavoro della commissione giustizia e pace cattolica, e alle corrispondenti agenzie anglicane e luterane. I vescovi delle chiese maggiori hanno parlato pubblicamente e anche in privato con il presidente Uhuru. C’è stata una crescita civica, abbiamo assistito a scelte di pace, e altri segni positivi tra la gente. Purtroppo, anche tra i vescovi si notano divisioni lungo linee etniche, e la gente lo sa. I vescovi hanno una grande potere. Il mondo religioso è visto come fondamentale tra i keniani e una parola dei vescovi potrebbe costringere le due parti al dialogo. Ci sono molti sforzi, magari dietro alle quinte, di vescovi e di membri del clero per portare le parti al dialogo».

Luca Attanasio – VaticanInsider

31 Ottobre 2017 | 18:20
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