«In Venezuela è come se fossimo in guerra»

Eliana Gherardi, 56 anni, è responsabile internazionale della formazione delle Damas salesianas (Ads), organizzazione nata in Venezuela cinquant’anni fa. Il gruppo, presente in tutto il mondo, si occupa di aiutare la popolazione venezuelana sotto tanti punti di vista: dall’istruzione alla sanità, passando per i bisogni primari delle persone che oggi, in Venezuela, faticano a trovare anche da mangiare. «Non siamo in guerra, ma è come se lo fossimo». Così Eliana riassume la situazione difficile del suo Paese in questo momento. Dopo l’elezione di Maduro, non riconosciuta dai Paesi del G7 e da molti oppositori politici, la situazione non è cambiata, anzi. «Da dicembre a oggi il tracollo è stato velocissimo. Non si riesce neppure a spiegare».

 

La situazione del Venezuela è problematica da diverso tempo: mancano cibo, acqua, medicine. Cosa hanno significato le elezioni? 

«La gente ha dimostrato di non essere d’accordo con queste elezioni non andando a votare, le strade erano completamente vuote, era tutto vuoto. Le persone sono rimaste in casa per dimostrare che non volevano prendere parte a questo voto. Formalmente, si sarebbe dovuto tenere a dicembre. Ma dal punto di vista sociale, per adesso, non è cambiato nulla, anzi: il governo non permette l’apertura di canali umanitari quindi non arrivano aiuti internazionali. La crisi economica è molto dura e si prevede che sarà ancora peggio. Il prezzo dei beni al supermercato cambia anche mentre sei in coda per pagare. Possiamo dire che in qualche modo è come se fossimo in guerra».

 

La crisi economica è grave e l’inflazione altissima. Come sopravvivere nella quotidianità? 

«Nel mercato ufficiale del governo il cambio è un dollaro per 70 mila bolivar. Ma in quello non ufficiale, dove tutti noi dobbiamo cambiare i soldi, arriva anche a 1 milion1 di bolivar. Lo stipendio, se va bene, è di due milioni: la carne costa cinque milioni al chilo, per dare un’idea. Non si riesce a comprare nulla, manca tutto. E il mercato nero fiorisce».

 

Nei mesi scorsi siete spesso stati definiti dai media «un popolo in coda»: è ancora così? 

«Certo. Le persone sono in coda prima di tutto in banca per ottenere i contanti anche solo per prendere l’autobus e andare al lavoro. Ma la maggior parte di loro non ci riesce. Sono in coda al supermercato ma non sanno mai cosa trovano. E se possono permettersi di comprare qualcosa».

 

Il problema è anche sanitario. Come uscire dalla fase di stallo? 

«Non ci sono medicinali, non possiamo importarli. Ogni giorno muoiono bambini di malattie banali, anche di influenza. Stanno tornando la malaria e altre malattie debellate. Non c’è acqua, non c’è cibo. Non puoi lavarti o lavare quello che mangi. C’è però un «mercato nero» anche di medicine di aiuto. Dalla Colombia riusciamo a far arrivare qualcosa e abbiamo anche alcune farmacie venezuelane che fino a poco tempo fa riuscivano a comprare via internet. Chi riesce a uscire dal Paese, come me, riporta indietro qualche medicinale e si cerca di andare avanti così. Noi come Damas salesianas abbiamo degli ambulatori: per i 50 anni dell’organizzazione, compiuti il 13 maggio, abbiamo scelto di radunare medici e medicine per vaccinare e aiutare quanti più bambini possibile. Ma molti medici lasciano il Paese, sono parte di quei 4 milioni di persone che se ne sono andate».

 

Il vostro ruolo, in quanto organizzazione religiosa sul territorio, è quindi importantissimo. Come operate? 

«Tutte le organizzazioni religiose si sono mobilitate e si mobilitano ogni giorno. Lo facciamo insieme. Il Venezuela è un Paese profondamente cattolico per questo per noi rimanere lì è naturale e il ruolo è importante. Aiutiamo come possiamo: fornendo pasti, medicine ma tanti offrono anche una casa ai bambini abbandonati dalle famiglie che non possono più mantenerli. Si fa qualsiasi cosa pur di dare una mano».

 

Come si avverte nel Paese il ruolo della Chiesa, del Vaticano? 

«Il Papa parla spesso del Venezuela nei suoi discorsi. Il ruolo del Nunzio Apostolico è stato importante per provare a mediare tra governo e opposizione ma non è riuscito a cambiare le cose. Noi rimaniamo nel Paese perché in fondo è una questione di fede: vogliamo che le cose cambino, vogliamo aiutare. La fratellanza è la base di tutto, non possiamo tirarci indietro. Siamo un sassolino, che però dà fastidio e finché restiamo sentiamo la speranza che le cose cambino».

 

Come? 

«Serve l’arrivo di un uomo forte che guidi verso un cambiamento. Forse ci serve il nostro Mandela. Ma oggi non c’è. Le fratture nei blocchi al potere possono essere un segnale che un cambiamento è possibile. Ma non si vede ancora la fine, non è facile. È come se vivessimo in prigione. Uscire dal Paese, venire qui a Torino, per me è stato come respirare per un momento la libertà. Ma nonostante questo dobbiamo rimanere, per aiutare e per cambiare le cose».

Camilla Cupelli – VaticanInsider

25 Maggio 2018 | 08:00
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