In Vaticano una delegazione interreligiosa siriana: «La soluzione alla crisi è possibile»

Siriani a colloquio con quella che definiscono «l’autorità morale mondiale che può aiutarci». Nasr Al Hariri, capo della delegazione siriana arrivata ieri in Vaticano e che si reca in Segreteria di Stato, è un vecchio amico di Gregorios Yohanna, uno dei due vescovi rapiti in Siria. Parlando lo ricorda frequentemente e con affetto, mentre aspetta che si faccia l’ora di tornare in Vaticano.

 

Come la sua vice, Hind Kabawat, amica da un ventennio di padre Paolo Dall’Oglio, anche lui rapito in Siria, ricorda quello che chiama il suo mentore: «Quando siamo riusciti a formare questo gruppo, questa coalizione siriana con esponenti di ogni comunità religiosa ed etnica presente in Siria, ho pensato che stavamo facendo esattamente quello che Paolo ci aveva sempre invitato a fare. Tra di noi ci sono sunniti, drusi, alawiti, cristiani, tutti gli altri, perché solo così si può parlare a nome della Siria e dei siriani. L’ultima volta che ho incontrato padre Paolo, non tanto prima del suo sequestro, gli ho chiesto come sempre di benedirmi, mi ha segnato la fronte e ricordo benissimo che ebbi la sensazione di sentire tutta la tensione, l’angoscia che aveva dentro di sé per il nostro futuro».

 

Gregorios Yohanna, vescovo ortodosso, ha insegnato al suo amico la preziosità del lavoro della Comunità di Sant’Egidio. E questo gli ha consentito di non stupirsi che proprio la Comunità abbia realizzato i corridoi umanitari per portare in sicurezza i siriani in fuga dalle bombe in Europa. E gli ha dato la speranza che questo lavoro posso allargarsi al di là dei preziosi corridoi.

 

Parlando con loro, ad esempio con Abdulahad Astepho, si ha l’impressione di non sapere quasi nulla della realtà siriana. «Ai tempi di Assad padre, nel paese non c’erano banche private solo la banca di stato. Poi Bashar al Assad ha aperto alle banche private, ce ne sono undici, tutte – al 51% almeno – di proprietà di Rami Makhlouf, cugino di parte materna del presidente. È questa privatizzazione dello Stato una delle cause della situazione in cui siamo. Non c’è una linea rossa che separa i siriani tra sostenitori e avversari di Assad. Io conosco tante persone che lavorano nello Stato, nelle istituzioni, nulla rende impossibile vivere insieme tra di noi perché tutti sappiamo che è la guerra ad aver spinto ad azioni riprovevoli, non le appartenenze religiose. Non si può dire altrettanto solo per due minoranze: i salafiti, che vogliono seguitare a combattere e la ristretta cerchia del presidente, che vuole seguitare a combattere. L’esercito siriano non esiste più, non hanno soldati, i nostri giovani si rifiutano, e così chi vuole combattere ha bisogno di chi è pronto a passare da una parte all’altra. Un motivo di grande preoccupazione è che la base dell’esercito è stata costituita in questi ultimi anni dagli alawiti, costretti ad arruolarsi e così questa piccola comunità ha perso tantissimi giovani, un numero assolutamente sproporzionato».

 

Sognano un futuro diverso, e sperano che possa arrivare nel 2021, quando scadrà il mandato presidenziale di Bashar al Assad. «Ai russi che ci hanno detto di pensare alla tutela delle minoranze, abbiamo detto che noi respingiamo la loro idea di milizie confessionali per proteggerle, come ci hanno proposto. Non vogliamo gruppi armati confessionali, come Hezbollah o altre milizie, non vogliamo Stati nello Stato, ma un esercito nazionale che sia di tutti, che sia al servizio della tutela di tutti, come lo Stato deve essere di tutti così anche la difesa deve essere per tutti, statale». Sentendoli discorrere tra di loro si ha netta la percezione che non parleranno di una guerra confessionale: «Tanti sunniti sono con il regime, come tanti cristiani non sono con il regime. Tra gli esuli che incontriamo qui in Europa, ci sono numerosi cristiani, che non rientrano in Siria per lo stesso motivo degli altri, non fare il servizio militare. Oggi sarebbero chiamati alle armi se rientrassero, e non vogliono farlo anche per non sparare ai loro fratelli».

 

«La comunità cristiana – spiega un ortodosso – è molto diversa da quel che si dice. Non è una stampella di nessuno. La religione non avvelena i pozzi della convivenza, in Siria lo sappiamo da secoli». Quando si tratta di passare alle idee emerge la consapevolezza che costruire il futuro vuol dire costruire una cittadinanza condivisa da tutti: di questo Nasr Alhariri, Hind Kabawat e Abdulahad Astepho parleranno in Vaticano, nella certezza che una «road map» può esserci. La individuano nella dichiarazione di Ginevra del 2012, quella che fu elaborata ai tempi in cui rappresentante dell’Onu in Siria era l’algerino Brahimi, nella risoluzione 2118 che chiede la distruzione delle armi chimiche e nella risoluzione 2254 sulla riorganizzazione politica della Siria. Approvata nel 2015, questa risoluzione chiede il «cessate il fuoco» immediato e l’avvio di negoziati di pace tra tutte le parti politiche ad eccezione dei gruppi terroristi, quali Isis e Nusra, contro i quali continuerà l’azione armata. «Non si deve guardare solo indietro, ma anche avanti. Nel 2021, quando scadrà il mandato presidenziale di Assad, potremo pensare a un futuro diverso?».

 

Per tutti i rappresentanti della Commissione Negoziale siriana i principali pericoli vengono da un’errata comprensione delle situazione sul campo. Non è la stessa ovunque; la battaglia di Douma ad esempio era nevralgica per motivi militari e di strategie straniere. La percezione che le aspettative per quanto il Vaticano possa fare sia superiore a quanto si possa immaginare è netta, anche perché tutti, a prescindere dall’identità confessionale, riconoscono e avvertono un’autorità morale indiscutibile, espressa benissimo dalle parole pronunciate da Papa Francesco.

Riccardo Cristiano – VaticanInsider

16 Aprile 2018 | 17:00
Tempo di lettura: ca. 3 min.
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