Mons. Pier Giacomo Grampa, vescovo emerito di Lugano.
Ticino e Grigionitaliano

Il vescovo emerito Grampa e la pandemia: «Pensiamo a chi dà la vita per cambiare la vita di chi resta»

Monsignor Grampa, com’è ora la situazione all’Istituto di Loverciano dove vive? Come è cambiata la sua quotidianità?

Benché non sia un Istituto grande perché finalizzato ad insegnamenti speciali per ragazzi diversamente abili, con la chiusura delle scuole, voluta dal Dipartimento, certo si sente il vuoto nei cortili, nei corridoi e nelle aule, la mancanza del suono del campanello che ordina la giornata, l’assenza dei ragazzi che si aspettavano ogni mattina con gioia e salutavano con trasporto docenti, educatori, personale. Ma non è venuto meno l’impegno verso di loro e la direzione dell’Istituto si è impegnata ad organizzare un insegnamento a distanza, cercando la collaborazione anche dei genitori per seguire gli obiettivi settimanali previsti dalla programmazione scolastica. Per ogni classe è stato indicato un insegnante di riferimento, con il quale coordinare le proposte di attività, e che deve settimanalmente riferire se i traguardi fissati si sono potuti realizzare. Dove è stato possibile si è costruito anche un orario scolastico virtuale, dettagliato, con le diverse materie, e per i ragazzi più grandi del terzo e quarto ciclo, oltre alle attività didattiche, sono stati pianificati anche lavori di aiuto domestico come ordinare la stanza, ordinare gli armadi, i giochi, fare pulizia, cucinare. Le modalità di lavoro concordate – dice sempre la direttrice – sono diverse: utilizzo di Internet, utilizzo di facilitatori informatici per la comunicazione che sappiamo essere a disposizione nelle case (Skipe, e-mail, WhatsApp, e facetime). Soprattutto si è chiesto ai docenti di essere vicini ai genitori, di interessarsi di ogni caso particolare, di dimostrare solidarietà e vicinanza. Per me non è cambiato molto il mio impegno quotidiano, perché la mia presenza nella scuola e nel lavoro di apprendistato è comunque marginale, spero significativa come presenza e persona, ma senza interferire nel lavoro scolastico o di apprendistato. Certo mi ritrovo solo a mangiare con le tre suore e la direttrice, mentre l’Istituto rimasto aperto ospita quattro o cinque  ragazze che non potevano usufruire di una accoglienza famigliare, e alle quali prestano attenzione con i docenti gli educatori e le suore che organizzano per loro un’occupazione intelligente del tempo, con attività opportune o adeguate.

A cambiare la mia quotidianità è stato determinante, più che la chiusura dell’attività scolastica e formativa in Istituto, la proibizione per gli ultrasessantacinquenni di uscire, di esporsi ai rischi di un contagio, l’ordine di evitare visite a ospedali, case anziani, comunità che ero solito visitare e alle quali offrire i servizi religiosi richiesti. A parte questa clausura imposta, la lettura, lo scrivere, l’interessarsi dei problemi dell’attualità della Chiesa o della società civile, qualche lezione di italiano in più alle mie suore che vengono dall’India, la preghiera, resta tutta inalterata, anzi intensificata.

Come riesce a rimanere vicino alla gente e alle persone a lei più care? Quali mezzi utilizza?

I mezzi comuni a tutti, che la tecnica e la scienza moderna ci assicurano, dal telefono al computer, ai messaggi WhatsApp, SMS, Mail… Certo si sono intessute linee di comunicazioni molto intense, si sono attivati i contatti, vicinanze, interessamenti, anche inattesi e simpaticamente condivisi, usando i mezzi di tutti e con un interesse fatto vivo dalla condizione di ritiro forzato; le giornate però non sono parse noiose, vuote, insignificanti, anzi, hanno permesso l’attivazione di contatti anche imprevisti e di piacevole sorpresa.

L’isolamento in cui viviamo è faticoso per tutti, sicuramente anche per i sacerdoti che devono trovare modi alternativi per rimanere vicini ai propri fedeli: ha avuto modo di confrontarsi con qualcuno di loro? Come vivono questa situazione?

Io ho un fratello prete a Milano, figurati se non ci siamo sentiti anche più di una volta al giorno per confrontarsi, verificare, discutere, interrogarsi su questa situazione che rischia di tagliare il ministero alle radici perché impedisce di rispondere all’invito di Gesù nel Vangelo che dice: «Andate e portate il mio Vangelo». E questa pandemia impedisce di andare, quindi non è facile realizzare il ministero del presbitero che c’è per andare. Altre vocazioni di esemplarità, di preghiera, di silenzio possono anche richiamare l’interesse e l’attenzione, ma se poi non si può venire, partecipare, condividere, l’isolamento è negazione della dimensione sociale e comunitaria, favorisce l’individualismo e uccide il benessere comune e il progresso sociale.

Se la sente di offrire qualche consiglio per vivere bene questa Quaresima vissuta nelle mura di casa, senza relazioni esterne?

Vorrei riproporre le tre parole con le quali avevo iniziato la Quaresima, suggerendo un atteggiamento di tenerezza, di speranza e di pazienza. Di tenerezza, cioè di attenzione, di rispetto, di accettazione verso ogni fragilità, verso ogni sofferenza, ogni angoscia, ogni ricerca, verso ogni limite. Forse non ci è abituale vivere la Quaresima con questo atteggiamento di tenerezza, siamo abituati ad altri sentimenti più di penitenza, di sacrificio, ma la situazione storica in cui ci troviamo ci chiede il coraggio di farci tenerezza verso tutte le situazioni difficili, verso i problemi dell’uomo, fisici o spirituali, verso chi ci sta vicino e sentiamo più come un peso che come un’occasione di grazia.

Le circostanze ci sollecitano a tanti pensieri sulla fragilità, l’impre-vedibilità, la sfida che ci viene da questa pandemia, una provocazione a leggere i segni dei tempi e a darsi una ragione delle scelte che siamo costretti a fare per continuare a coltivare la speranza. Speranza è la mia seconda parola, speranza in un futuro altro, diverso, basata, non sull’illusione, ma sulla certezza che Dio è con noi, Dio ci è vicino, non ci illude con delle apparenze, con sentimenti effimeri, è con noi anche nelle prove più impreviste e dure e non ci concede il diritto di demoralizzarci. Il nostro Dio non ci concede di demoralizzarci, ci invita a non avere paura, a non avere paura di niente, ci ha dato Suo Figlio come fratello perché fosse luce in mezzo alle tenebre, al buio, alle delusioni, ai fallimenti, e cammini con noi fino alla speranza definitiva.

Perché questa speranza non muoia occorre avere pazienza, che non è rassegnazione, non ci impone di subire ma di combattere per superare e comprendere il senso del nostro cammino. La pazienza è una virtù con due facce: una faccia attiva che esprime la resistenza coraggiosa e costante nell’affrontare le difficoltà, e una faccia passiva in quanto esprime la capacità di sopportare con rassegnazione e serenità i disagi e le sofferenze.

Scrive con molta acutezza Romano Amerio nel suo Zibaldone, all’aforisma 59: «Il vocabolo pazienza è invilito e lo adoperiamo per i giochi di pazienza e simili cose non disoneste ma insignificanti; viceversa pazienza è l’espressione maggiore della virtù di fortezza, perché la forza che si chiede per resistere è maggiore di quella che si richiede per attaccare».

Cosa può dirci su alcuni problemi più concreti di questo momento storico?

Credo, se non vogliamo sciupare questo tempo di clausura forzata, che dobbiamo sfruttarlo per riflettere sui tanti problemi legati a questa che si rivela essere sempre più una pandemia. Faccio qualche esempio: il confronto tra la reazione della Chiesa alle epidemie del Cinque-Seicento, penso alla peste, con Carlo Borromeo che promoveva processioni pubbliche, benedizioni penitenziali di massa, invocazioni alla croce per le strade di Milano, favorendo la diffusione del morbo, e le scelte fatte oggi di evitare ogni riunione di persone, con la conseguenza di impedire ogni celebrazione religiosa, quindi l’uso del virtuale, della televisione che porta in casa l’occasione di partecipare ad eventi sacri, con tutto quello che questo comporta, perché – commentava il vescovo di Milano – «non vinceremo mai la fame mangiando il pane per televisione». L’Eucaristia fa la Chiesa, ma è la Chiesa reale, comunità viva di persone a fare l’Eucaristia. Facciamo attenzione a non ridurre a dimensione virtuale ciò che richiede una partecipazione reale. E che dire di quel morire così come un numero, senza un’assistenza anche spirituale, senza un sostegno morale, senza una vicinanza desiderata, senza una preghiera: come un numero, con quella lugubre processione di camion militari che trasportano bare per i crematori, ma dentro quelle bare non ci sono solo salme, ma ci sono storie di persone che hanno fatto la nostra storia. E quanti altri pensieri in questi giorni, come quello suggeritomi da un amico medico, il quale mi diceva che si parla solo di Coronavirus, si attribuiscono a lui tutte le responsabilità, non si rende abbastanza attenti sulle sregolatezze del fumo, dell’alcol, dell’obesità, delle nutrizioni sbagliate, del diabete, delle cardiopatie, delle insufficienze polmonari, dei modi di vita che richiedono diversi comportamenti, educazione e rigore. Di fronte a chi pretende, come si sente dire soprattutto negli Stati Uniti, di escludere dalle cure le persone sopra i 65 anni, mi ha dato consolazione e sollievo leggere una mattina, alla Messa, una pagina di Isaia (65.20) che diceva: «Non ci sarà più un vecchio che dei suoi giorni non giunga alla pienezza; poiché il più giovane morirà a cent’anni, e chi non raggiunge i cento anni sarà considerato maledetto».

Allora penso agli amici che non hanno raggiunto quel traguardo. Luca, un ragazzone di 50 anni, diversamente abile, ospite dell’Istituto Miralago, ma sostenuto da una magnifica famiglia affidataria. Luca che veniva da Bodio in cattedrale a Lugano per partecipare alla Messa del vescovo Pier Giacomo e sentiva la mancanza dell’Eucaristia in queste ultime settimane. Luca un gigante buono, semplice nell’animo, delicato nei sentimenti, che mi ricordava le beatitudini. E penso a Nicola, medico, morto a 66 anni, padre di tre splendidi ragazzi, la cui morte mi ha riempito di interrogativi. Ma come è possibile, una sorte così a uno del mestiere?    Mi si conceda ancora un pensiero per un confratello, vescovo salesiano, del vicariato apostolico di Gambella, in Etiopia. Una persona generosa, creativa, ricca di proposte e iniziative, che si è speso tutto per la sua missione, tanto da giocarsi la salute. Ritirato a Nave, nel bresciano, non ha retto all’attacco del Coronavirus e ci ha lasciato a soli 67 anni d’età.

E che dire dell’imperversare su certi mezzi di comunicazione di una comunicazione pettegola, rissosa, indocile, che non impara e quindi non può insegnare: parla, parla, parla, mettendo tutto sullo stesso piano, il parere del competente e dello specialista con quello dell’analfabeta incolto e crea così confusione, frastuono; disturba e distrae, infastidisce e annoia, per non parlare delle risse dei politici che vogliono trarre, anche dalle catastrofi, occasioni per rivincite elettorali.

Sono grato all’amico che ogni giorno mi manda per pdf una decina di quotidiani italiani di tutto l’arco politico da sinistra a destra, passando per i grandi quotidiani storici, che offrono spunti di confronto e discussione interessanti. Certo i giorni sono lunghi ma i temi su cui riflettere non mancano.

Riguardo alla Parola di Dio, su quali testi riflette il vescovo emerito?

Penso a quei Vangeli di queste domeniche di Quaresima, che son serviti ai Padri della Chiesa per le loro «mistagogie» (= catechesi di preparazione al Battesimo): da quello delle tentazioni a quello della trasfigurazione, dal Vangelo della samaritana dell’acqua che disseta per la vita eterna, al Vangelo della luce della guarigione del cieco nato o della vita nella risurrezione di Lazzaro: Vangeli dai quali occorrerebbe trarre ben più indicazioni e insegnamenti per il posizionamento della Chiesa nella vita di oggi, Chiesa dell’ascolto, del dialogo, dell’accoglienza, Chiesa ospedale da campo, Chiesa in uscita, Chiesa che celebra il culto in spirito e verità. E non dimentichiamo di rendere omaggio ai medici, infermieri, volontari, curanti, ai preti – e furon tanti – che diedero la loro vita per preoccuparsi della vita da cambiare in chi resta. Esperienza anomala, ma non inutile, da non sprecare, perché sia Pasqua anche in tempo di Coronavirus.

Silvia Guggiari

Mons. Pier Giacomo Grampa, vescovo emerito di Lugano. | © catt
4 Aprile 2020 | 17:20
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