Commento

Il Papa e la periferia, un religioso di Taizé: «Un concetto ancora da scoprire»

«Evangelizzare implica zelo apostolico. […] La Chiesa è chiamata a uscire da se stessa e ad andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria. Quando la Chiesa non esce da se stessa per evangelizzare diviene autoreferenziale e allora si ammala […]. I mali che, nel trascorrere del tempo, affliggono le istituzioni ecclesiastiche hanno una radice nell’autoreferenzialità, in una sorta di narcisismo teologico». Così il cardinale Jorge Mario Bergoglio nel 2013, alla vigilia del Conclave dal quale sarebbe uscito con il nome di Francesco. Da quel momento il concetto di periferia non solo è entrato nel vocabolario quotidiano della Chiesa, ma è tornato insistentemente nelle parole del Pontefice argentino che, di fatto, mai ha smesso di invitare i cristiani ad uscire per raggiungere le periferie del mondo, per «portare il Cristo» ai lontani dalla vita delle comunità dei credenti.

 

Se è vero che la prima interpretazione di questa immagine porta a leggervi una rinnovata evangelizzazione, quasi a richiamare l’invio dei discepoli che troviamo alla fine del Vangelo di Matteo (28, 19s), «vi è però ancora molto da scoprire nel concetto di periferia utilizzato da Papa Francesco». Ne è convintissimo Frère John di Taizé. Sessantotto anni, americano di origini italiane, John dal 1974 fa parte della comunità monastica fondata da Frère Roger Schutz ed è un biblista apprezzato che nella «cittadella ecumenica» nel cuore della Borgogna trascorre gran parte del suo tempo aiutando i giovani che partecipano agli incontri internazionali a scoprire e a leggere la Bibbia.

 

Autore di numerosi libri tradotti in diverse lingue (fra i più recenti  »La fede in ricerca. Sei riflessioni sull’essere e l’agire cristiano», con i tipi di EDB e »Perdono rancore» insieme ad Antonia Arslan per Il Margine pubblicati nel 2014; poi »Un’amicizia e i molti amici. Reimmaginare la Chiesa cristiana nel tempo della mondializzazione» sempre con Edb nel 2012), era a Brescia martedì sera per presentare il suo nuovo volume «Terra di passaggio. Il Sabato santo e la riscoperta dell’aldilà», tradotto in Italia da Morcelliana a pochi mesi dall’edizione per Ateliers et presses de Taizé). E proprio fra le pieghe di questo libro denso che s’interroga sulla fede cristiana attraverso il paradigma dell’escatologia – la scienza delle cose ultime – ecco affacciarsi il rimando a Papa Francesco e al tema della periferie, leitmotiv del pontificato, sul quale torniamo nella forma di un colloquio.

 

Frère John cosa c’è ancora da scoprire? È vero pure che le indagini hanno scavato più in campo geopolitico, le influenze di intellettuali come Andre Gunder Frank, o Fernando Henrique Cardoso con le analisi sul sottosviluppo, le teorie di Immanuel Wallerstein dell’»economia-mondo», la categoria dell’espulsione come l’ha formulata Saskia Sassen… Ma restiamo sulla visione di Chiesa. 

«Innanzitutto vi è una visione di ciò che la Chiesa è chiamata ad essere: mai un’istituzione centrata su se stessa, preoccupata del proprio benessere, piuttosto una comunità che segue l’esempio del suo fondatore, che si mette per strada per incontrare le donne e gli uomini in tutte le periferie del mondo» .

 

Questo perché? 

«Questo – va sottolineato – è possibile e necessario poiché «Dio sta in tutte le parti: bisogna saperlo scoprire per poterlo annunciare nell’idioma di ogni cultura». E ancora: «Il discepolo missionario è uno ›decentrato’: il centro è Gesù Cristo, che convoca e invia. Il discepolo è inviato alle periferie esistenziali», per usare le parole dell’incontro di Francesco con i vescovi responsabili del consiglio episcopale latino-americano, a Rio de Janeiro, nel luglio 2013».

 

Sì, in sintesi, il Papa dice di portare Cristo in tutte periferie.  

«Attenzione: il Papa non dice soltanto che i cristiani sono chiamati a portare il Cristo a coloro che vivono alle periferie. Questo è vero nel senso che la proclamazione della Buona Notizia, sostenuta dalla testimonianza vissuta, è un dono fatto da Gesù ai discepoli che non devono tenere per sé; il messaggio evangelico ha il potere di illuminare ogni esistenza umana, per quanto possa essere lontana da qualsiasi fede esplicita, ricerca religiosa, persino sistema di moralità. Però…»,

 

Però? 

«Sarebbe ancor più vero dire che i cristiani sono chiamati a seguire il Cristo sul suo cammino verso le periferie di questo mondo, poiché è la strada che ha intrapreso lui stesso entrando nella condizione umana…».

 

In che senso?  

«Basterà ricordare le sue origini. Nato in una cittadina insignificante ai confini dell’Impero romano, vivendo una vita breve in relazione quasi unicamente con gente modesta, preferendo gli esclusi dalla società, morto come uno degli ultimi fra gli ultimi. Ecco, Gesù offre a coloro i cui occhi non sono accecati dall’assuefazione un’immagine completamente insolita e sconvolgente della vita divina».

 

E il rimando a Papa Bergoglio? 

«Questa verità, benché poco esplicita nelle sue parole, si può dedurla da ciò che precede: siamo chiamati a trovare il Cristo nelle periferie, dal momento che è il suo luogo di predilezione. Ricordiamo cosa ha detto ad alcuni catechisti pellegrini a Roma: «Dio è sempre oltre i nostri schemi! Dio non ha paura delle periferie. Ma se voi andate alle periferie, lo troverete lì». I credenti che escono per incontrare altri con l’intenzione di condividere la loro fede e di essere fedeli a colui che li mette in cammino scopriranno, forse con stupore, che in questa iniziativa la loro fede viene approfondita e sostenuta, che hanno compreso meglio Colui nel quale ripongono fiducia».

 

Questo investe anche il discorso sulle missioni? 

«L’ho scritto anche nel mio ultimo libro. C’è una vicinanza interessante fra il pensiero di Francesco e un documento redatto dalla Commissione per la missione e l’evangelizzazione del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Nel documento, presentato nella XIX Assemblea mondiale a Busan, in Corea, nel maggio 2013, troviamo scritto che la storia delle missioni cristiane è stata caratterizzata dall’idea di espansione geografica a partire da un centro cristiano verso territori lontani, ma che oggi siamo di fronte ad un cambiamento radicale del panorama ecclesiale descritto come cristianesimo mondiale in cui la maggioranza dei cristiani vivono o hanno le loro origini nel Sud ed Est del mondo. Lo stesso documento fa una sintesi chiara. Dice: «La missione è stata intesa come movimento che iniziava dal centro verso la periferia, e dai privilegiati verso gli emarginati della società. Ora le persone ai margini stanno reclamando il loro ruolo chiave come agenti della missione e definiscono la missione come trasformazione». Il testo poi non dimentica che questa inversione di ruoli nella visione della missione ha radici bibliche».

 

La conseguenza? 

«È l’invito ad una «missione dalle periferie» per equilibrare la «missione dal centro». Una missione così concepita implica un ascolto delle preoccupazioni degli esclusi per non considerarli unicamente dei recipienti passivi del Vangelo. Anche per Papa Francesco, un’attenzione alle periferie trasforma positivamente il nostro sguardo sulla realtà. Parlando a ruota libera con i superiori generali degli ordini religiosi, è stato lui a commentare che grandi cambiamenti della storia si sono realizzati quando la realtà è stata vista dalla periferia, non dal centro. È una questione ermeneutica: si comprende la realtà se la si guarda dalla periferia, e non se il nostro sguardo è posto in un centro equidistante di tutto… Da lì si vedono meglio le cose, si fa un’analisi più corretta della realtà, senza parametri precostituiti».

 

E quale sarebbe il significato di questa intuizione – che sociologicamente può essere vera – in un discorso di fede? 

«È vera sociologicamente, ma pure teologicamente, se la nostra analisi dello spazio del Sabato santo aperto dalla morte e resurrezione di Cristo è corretta. Per la fede cristiana, lo sguardo più giusto sul reale deriva da quel punto di osservazione perfetto che non è altro che la croce sulla quale è stato inchiodato l’Innocente. Dall’alto della croce si scoprono le pretese illegittime della giustizia umana e la risposta divina corrispondente di perdono e di vita in pienezza. Di conseguenza, se la Chiesa cristiana occupa per sua natura uno spazio liminale rispetto al mondo, se è nel mondo senza essere del mondo, ne consegue che, scoprendo la sua prossimità con tutti gli emarginati della società, essa diviene sempre più se stessa… E rischia meno di confondere il Regno di Dio con qualche ideale umano o condizione di fatto».

Marco Roncalli – VaticanInsider

23 Aprile 2018 | 18:00
Tempo di lettura: ca. 5 min.
PapaFrancesco (1458), taize (70)
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