Il coraggio dell’amore vince l’abisso del dolore

Commento al Vangelo del calendario romano

Domenica scorsa Gesù si presentava come il buon pastore, con una traduzione più suggestiva «il bel pastore», come colui che canta la bellezza della vita, la dona a piene mani, senza finzioni, perché è la sua che offre, incantando di meraviglia le sue pecore, che lo riconoscono come colui che non le tradirà mai. In questa nuova liturgia, nota don Willy Volonté, il maestro sceglie un’immagine ancora più stringente,
ponendosi al centro della vigna di Israele, piantata dal Padre e nutrice di linfa vitale per i suoi tralci. Il risultato è un legame così profondo che se i tralci non si lasciano innervare da questa sorgente di vita, si seccano. Quando il vento dello spirito passa fra di loro, stridono secchi e cadono senza foglie né frutti. I rami innestati nella vite che è Gesù, invece, rosseggiano del sapore intenso della vita, frullano al vento, attirando a sé, ricordando il suono della letizia, l’ombra della misericordia, la frescura della consolazione.

Il sacerdote che commenta il viaggio liturgico di questa domenica ci ricorda che tutto questo non si può dire, si può mostrare. Chi non ha assaggiato mai la fragranza dell’uva, la dolcezza del vino, potrà solo immaginarlo, attraverso le parole di un altro, ma se vedrà la sua gioia, la sua carità, la sua misericordia, saprà che quella vigna non è selvatica ed è vera. Per questo san Giovanni nella sua prima lettera ci dice: «Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità». La verità non è l’affermazione arrogante di un’idea assoluta, ma Gesù, che ha detto di sé stesso «Io sono la via, la verità e la vita». Operare nella verità quindi significa mostrare questa nostra appartenenza a Lui, e «per riprendere quanto detto nelle domeniche scorse, è proprio questa unicità di verità e vita che fa pensare a Lui come l’unico salvatore possibile per una vita autentica dell’uomo».

Dante Balbo*

*Dalla rubrica televisiva Il Respiro spirituale di Caritas Ticino in onda su TeleTicino e online su YouTube

Commento al Vangelo del calendario ambrosiano

È l’ultima sera della sua vita terrena, nella sala dove ha celebrato con i discepoli la Cena pasquale: Gesù alza gli occhi al Cielo e si rivolge al Padre, quasi dimenticando i discepoli seduti con Lui alla stessa tavola. E la prima parola, ripetuta più volte, è accorata invocazione al Padre perché glorifichi il Figlio. Ma che cosa è questa gloria che Gesù domanda per l’ora che sta per vivere? Sta per entrare nella terribile esperienza della sua passione e morte, quella stessa sera il suo volto sarà sfigurato dall’angoscia e rigato da un sudore di sangue, chiederà inutilmente ai discepoli di stargli accanto, vegliando con lui. Eppure questo cammino di sofferenza fino alla croce viene paradossalmente indicato come cammino di gloria. Colui che è disceso fin nel baratro della nostra morte sarà glorificato: vuol dire che la sua condivisione estrema della nostra condizione mortale non è disfatta, non è oscuro precipizio verso il nulla: è glorificazione.

Leggere la croce, quella di Gesù e ogni nostra piccola o grande croce come gloria non è maldestro tentativo di cancellare o sublimare la sofferenza, non è un modo, come scriveva Karl Marx, per abbellire di fiori le nostre catene: è forza per non cedere alla disperazione, per non fuggire ma resistere e condividere: passano infatti dalla morte alla vita solo coloro che per amore condividono. Davanti alla sofferenza e alla morte Gesù non chiede d’esserne liberato: domanda che nell’oscuro abisso del dolore risplenda la gloria, vinca il coraggio dell’amore. La preghiera di Gesù al Padre non dimentica i discepoli, quelli che gli stanno accanto e tutti gli altri, innumerevoli che crederanno in lui, anche noi. Quell’ultima sera Gesù ha pregato anche per ognuno di noi e la sua è una grande preghiera di intercessione. È la preghiera di chi si mette tra Dio e gli uomini chiedendo una cosa sola per noi tutti: esser custoditi, essere al sicuro nelle mani del Padre. Di null’altro abbiamo bisogno: esser custoditi dall’amore affidabile di colui che non vuole che niente e nessuno vada perduto.

Don Giuseppe Grampa

2 Maggio 2021 | 06:36
Tempo di lettura: ca. 3 min.
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