Giorno 4 – Omelie del Vescovo Valerio nel Pellegrinaggio a Roma

Venerdì, 16 settembre Andate in tutto il mondo

I segni di coloro che credono nella misericordia

È abbastanza impressionante leggere, in questa finale del secondo vangelo, le parole di Gesù che precedono il solenne invio in missione, rivolto agli Undici dal Risorto prima della sua ascensione al cielo e rinnovato questa mattina per noi, che concludiamo con questa celebrazione il nostro pellegrinaggio giubilare. Gesù non manda gli apostoli dopo averli trovati al meglio delle loro disposizioni, ma dopo averli rimproverati «per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a coloro che lo avevano visto risorto». Non sembra davvero una scelta vincente, quella del Signore. Come sperare di fare arrivare il Vangelo a ogni creatura con degli annunciatori così visibilmente poco consolidati, così fragili nelle loro convinzioni, così poco disposti a lasciarsi coinvolgere dalla parola altrui?

Eppure è proprio in questo apparente paradosso che si racchiude la speranza che dovrebbe essersi riaccesa in noi in questi giorni particolari.

C’è una sola vera disgrazia che può capitare in un’esistenza umana ed è quella di chiudersi al sogno di Dio sulla nostra vita, alla sua ostinazione nel continuare a guardarci in Cristo come davvero capaci di moltiplicare nel mondo la vita. Che cos’è finalmente la misericordia? È l’inesauribile creatività di Dio nei confronti della nostra storia ferita, è la sua sorprendente disponibilità a guardarci come capaci di rigenerazione e di fecondità anche dopo che noi gli abbiamo fornito mille prove delle nostra inadeguatezza e della nostra inaffidabilità.

La desolante fallibilità umana, la sconcertante debolezza che caratterizza la nostra condizione terrena, il triste spettacolo delle nostre ripetute infedeltà, sono stati certamente i fantasmi che hanno assediato il cuore di Saulo prima del suo incontro con il Signore sulla via di Damasco. Con tutte le forze il giovane rabbi di Tarso, allievo di una delle scuole farisaiche più prestigiose del suo tempo, ha cercato di esorcizzare, con il suo zelo, il suo impegno, la sua assidua applicazione nello studio e nella messa inpratica delle tradizioni dei padri, la possibilità di apparire inadeguato, manchevole, insufficiente rispetto alle innumerevoli e complesse esigenza di una vita all’altezza dell’alleanza con il Signore. Non poteva accettare l’idea che il Signore avesse dato una Legge al suo popolo senza che questi fosse in grado di realizzarla in pienezza, senza ombre, irreprensibilmente.

Finché non è stato raggiunto dalla rivelazione di Cristo, finché la sua vita non ha subito l’impatto sconvolgente con Gesù vivente e operante nella Chiesa, suo corpo vivente nella storia. Chi non ricorda la frase decisiva di questo incontro avvenuto sulla strada del persecutore intenzionato a eliminare dal giudaismo la piaga di quei discepoli, pronti a subire la morte, pur di non rinunciare al loro legame con Gesù? «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Io sono Gesù, che tu perseguiti!». Ed è l’inizio di una storia umana radicalmente nuova, non più fondata sull’orgoglio di riuscire con le proprie forze a raggiungere l’ideale, la propria immagine perfetta, la rappresentazione sublimata di sé, ma ricreata dal basso, dal centro, dalla radice dell’umano nella sua vulnerabilità e fragilità.

«Shaul, Shaul», richiama in ebraico l’espressione tenerissima di una madre: «Piccolo mio, piccolo mio». È la voce della tenerezza di Dio che scioglie il ghiaccio delle nostre paure e delle nostre angosce, ci riporta al profumo e alla modestia della terra originaria da cui siamo stati plasmati dalle mani di Dio, ci introduce nel mondo delle realzioni vere, con noi stessi, con gli altri, con il mondo e con Dio.

Non c’è prima di tutto qualcosa da fare. Si tratta di credere e lasciarsi battezzare, ossia, immergere, colare a picco nel mare del suo amore. Lasciarsi «rivestire della carità, che unisce in modo perfetto». Scacciare demoni, parlare lingue nuove, prendere in mano serpenti, scoprire che nessun veleno bevuto può davvero provocare danno alla nostra vita, trasmettere pace e guarigione: non sono esagerazioni poetiche, semplici illustrazioni retoriche di un ministero prodigioso. Sono le espressioni multiformi di una vita umana realmente salvata dalla tirannia del proprio ego, vissuta in comunione con il Signore che agisce insieme ai discepoli e conferma la Parola con i segni che la accompagnavano, ossia, riproduce nel discepolo lo stile inconfondibile della sua stessa vita.

È bello che la prima lettura ci riporti questa mattina alla dimensione modesta della ferialità alla quale ci apprestiamo a ritornare. Non si tratta di rendere evanescente la durezza della fatica dell’incontro con gli altri in famiglia, nelle comunità, in società. Vivere insieme ogni giorno nei nostri ambienti può essere molto arduo e il lamento nasce facilmente dentro di noi. Un altro punto di partenza dovrebbe però esserci diventato chiaro in questi giorni. Non siamo in questo mondo per caso, siamo «scelti da Dio, santi e amati» e questo ci dà sufficiente spazio interiore per accogliere tutte le contraddizioni, per ospitare ciò che non possiamo ancora comprendere, per diventare «eucharistoi».

«Eucharistoi ginesthe». «E rendete grazie!», traduce il nostro lezionario. È solo un pallido riflesso della ricchezza di questa espressione pregnante. In realtà, è l’invito a manifestare nel mondo il frutto del perdono ricevuto e assimilato: una vita capace di raccontare, di lasciare un segno, di passare e di lasciare dopo di sé una traccia di luce mai vista prima. È il moi augurio per voi con le parole di Gesù e di Paolo: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo… Qualunque cosa facciate , in parole e opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di lui a Dio Padre».

17 Settembre 2016 | 11:30
Tempo di lettura: ca. 3 min.
vescovo (110)
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