Giorno 3 – Omelie del Vescovo Valerio nel Pellegrinaggio a Roma

Giovedì, 15 settembre Eucaristia in San Pietro

La misericordia che ci rende servitori dei fratelli

Siamo certamente al punto culminante del nostro pellegrinaggio. Abbiamo attraversato la porta santa della maggiore basilica romana, quella in cui sono custodite le spoglie dell’apostolo a cui il Signore ha dato il compito di essere fondamento solido della Chiesa e di confermare i fratelli nella fede. È vero: Gesù non ha voluto che nella comunità dei discepoli che avrebbero fatto riferimento a Lui ci fossero delle cariche di tipo mondano e da esercitare secondo la logica del potere e del prestigio. Basterebbe ricordare, a questo proposito, le parole inequivocabili che troviamo nel vangelo di Matteo: «voi non fatevi chiamare ‘rabbì’, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate ‘padre’ nessuno sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare ‘guide’, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo» (Mt 23,8-10). Nello stesso vangelo al capitolo 16 e poi nel brano di Giovanni che abbiamo appena letto, Gesù però non manca di affidare a un fratello una responsabilità precisa da esercitare verso coloro che con lui rimangono fratelli e sorelle. «Pasci i miei agnelli». «Pascola le mie pecore». «Pasci le mie pecore». Per tre volte il Signore incide nel cuore dell’apostolo che per tre volte in precedenza non ha avuto la forza di riconoscerlo davanti agli uomini l’appello ha compiere un preciso servizio nei confronti di coloro che avrebbero aderito al Vangelo: dare loro da mangiare, nutrirli con la Parola sostanziale della fede, non lasciarli errare smarriti, affamati e assetati, per le strade del mondo. Nella Chiesa ci vuole qualcuno che in maniera visibile e permanente sia segno con la sua vita della sollecitudine del buon Pastore, che si distingue dal mercenario, proprio perché «gli importa delle pecore», perché nessuna gli può risultare indifferente.

Siamo venuti a Roma anche per questo. Per riscoprire che la Chiesa è costituita da Gesù nel mondo come lo stare insieme tra esseri umani dove ci si prende cura gli uni degli altri, dove nessuno dovrebbe cadere nella percezione che non vi sia alcuno che si interessi di lui. Nel linguaggio parabolico di Gesù, il capo non è colui che prima di tutto comanda, dirige, giudica o organizza, bensì «l’amministratore fidato e prudente», chiamato «per dare la razione di cibo a tempo debito» (Lc 12,42). È il custode di una dinamica che non può essere riservata ad alcuni, pochi, a beneficio di tutti gli altri, ma deve diventare lo stile di un vivere insieme, di un agire ecclesiale, di una maniera di raccontare al mondo la misericordia di cui siamo i primi beneficiari e testimoni.

Continua a essere vera per tutta la Chiesa, per ogni cristiano, dopo duemila anni la frase di Pietr al paralitico che si volge a guardare a lui e a Giovanni, «sperando di ricevere da loro qualcosa»: «Non possiedo né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina¨». Qui non solo ci viene detto che nessuno dà quello che non ha, ma, ancora più profondamente, ci viene ricordato che nessuno dà se non quello che è pronto a ricevere in ogni istante nella sua consapevole incapacità di amare come vorrebbe.

Chi di noi non sarebbe contento di essere celebrato da tutti come un grande benefattore dell’umanità, come qualcuno così carico di qualità, di capacità e di ricchezze da riuscire a guarire ogni infermità, a risolvere tutti i problermi dell’umanità, a spargere abbondanza di bene su ogni miseria e stortura di questo mondo? Ma proprio il vangelo che abbiamo ascoltato ci aiuta a capire che proprio ditero questo ideale, apparentemente così generoso, si può celare una segreta volontà di potenza e di affermazione di sè. Dio non ha bisogno di eroi della dedizione verso gli altri da inserire nel Guinness dei primati, non ha bisogno di campioni di filantropia che facciano parlare di sé sui giornali e alla televisione. Quello che lui cerca nel cuore dell’apostolo a cui ha voluto conferire il ministero del pastore è l’umile fiammella di un po’ di affetto per Lui, un po’ di attaccamento alla sua Persona. «Gli disse per la terza volta: ‘Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?’, ossia, «ci tieni un po’ a me?». Ed è proprio qui che Simone diventa realmente Pietro, lasciando finalmente al Signore le redini della propria vita.

Questa grande basilica, che ci impressiona ogni volta per la sua grandiosità e la sua imponenza, non ci deve distrarre dall’essenziale. Qui Pietro ha dato la sua testimonianza suprema. Qui i suoi successori nei secoli ne hanno prolungato il compito ricevuto dal Signore, fino a Papa Francesco, con il suo servizio così limpido ed eloquente nei nostri giorni. Alla radice però di questa avventura millenaria non c’è però altro che la misericordia del Signore, il suo abbassarsi alle nostre possibilità per darci il coraggio di camminare con Lui nel tempo in comunione con i fratelli e le sorelle che ci stanno accanto.

Certo, qualcosa deve morire nel nostro cuore. Occorre imparare a lasciare andare i nostri sogni di grandezza su noi stessi, i nostri ideali e le nostre aspettative di accumulo e di acquisizione di sempre nuove qualità e prerogative. «Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse ‘Mi vuoi bene?’», ma è proprio in questo punto di estrema debolezza che il Signore lo prende per mano fino a dare la testimonianza suprema.

Ci basti quest’oggi ritrovare nel nostro cuore, sotto le macerie della nostre delusioni e stanchezze, un po’ di affezione profonda per lui. Basterà al Signore vederci pronti a lasciarci conoscere da lui in tutta la nostra povertà: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Sarà per lui sufficiente per recuperarci alla comunione, per toglierci dall’isolamento, per compaginarci in un solo corpo, dove nessuno si senta guardato con indifferenza e dove ciascuno riconosca di dovere all’altro la sollecitudine con la quale in ogni istante viene accolto.

16 Settembre 2016 | 07:00
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vescovo (110)
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