Giornata dei missionari martiri, Dal Toso: «Oggi troppa gente soffre per il male degli altri»

«Ci sono più martiri oggi che nei primi tempi della Chiesa». La frase ripetuta come un mantra da Papa Francesco sin dall’inizio del suo pontificato delinea il quadro della condizione di sofferenza e persecuzione che oggi vivono i cristiani in tante parti del mondo. Sono singoli fedeli, gruppi o intere popolazioni, locali o rifugiate in altri Paesi, oppure tanti missionari partiti dall’Europa o dal nord America per portare l’annuncio del Vangelo. Proprio a loro è dedicata la «Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri» che si celebra ogni anno il 24 marzo in tutto il mondo, e che per il 2018 ha come figura di riferimento monsignor Oscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo di El Salvador icona di martirio che sarà presto canonizzato.

 

«Questa giornata ci ricorda che sempre la Chiesa ha vissuto di questa testimonianza di sangue dei martiri, Dio a volte sceglie qualcuno per dare la vita fisicamente perché così possa dare frutto», spiega monsignor Gian Pietro Dal Toso, presidente delle Pontificie Opere Missionarie (Pom).

 

Che significato ha la figura del martire in un mondo secolarizzato e iperconnesso e, al contempo, lacerato dagli estremismi religiosi?  

«Innanzitutto chiariamo che martire, nell’accezione classica del termine, è colui che viene ucciso in odio alla fede, poi in senso più lato il martire è anche colui che dà la vita, che la «perde», la spende per il Vangelo piuttosto che per inseguire progetti. Il mondo, oggi, è pieno di questi martiri, di testimoni. Basta vedere quanto accade negli ultimi anni in Medio Oriente. Queste persone mettono in evidenza che il mistero insito nella vita di ogni uomo è quello del perdere la vita per ritrovarla. Tutti conosciamo la frase di Tertulliano: «Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani». E Gesù stesso dice che il chicco di grano, se muore, porta frutto. Il morire per vivere è dunque una dinamica iscritta in tutta la creazione».

 

È una testimonianza necessaria oggi?  

«Assolutamente. Attraverso i martiri Dio ci ricorda il cuore della nostra vita, il senso più alto, che è quello di darci, di rinunciare a qualcosa di noi per l’altro. I frutti di chi lo ha fatto li vediamo tuttora, ogni giorno».

 

Ad esempio?  

«Io rimango continuamente colpito quando vedo questa schiera di sacerdoti che viene a studiare a Roma da paesi dell’Africa e dell’Asia. Da territori che senza l’opera di missionari, religiosi e laici, partiti dall’Europa e dall’America, non avrebbero conosciuto il Vangelo e la ricchezza della Chiesa».

 

Lei come segretario di «Cor Unum» ha avuto modo di viaggiare parecchio e visitare soprattutto zone di crisi. Che ricordi porta con se?  

«I viaggi, soprattutto i primi, mi hanno scosso duramente. Vedere i destini incerti delle persone a causa di persecuzioni o anche catastrofi climatiche, i campi profughi, madri che non sanno come far mangiare i figli… Dietro i numeri ci sono persone che soffrono e soffrono per il male degli altri. Negli ultimi anni di «Cor Unum» ho avuto a che fare spesso con paesi mediorientali come Siria, Libia, Iraq, Giordania, e oltre al livello umanitario – difficoltà di cibo, medicine, sopravvivenza – e all’esodo dei cristiani, ho notato che uno dei più gravi problemi è l’erosione del tessuto sociale. Nel senso che è andata in crisi quella convivenza sociale che ha sempre caratterizzato certi luoghi. Un problema che, dopo la guerra, lascerà profonde ferite».

 

Un altro problema è quello della libertà religiosa. Il Rapporto 2018 pubblicato a gennaio dalla ong Open Doors denuncia che sono oltre 215 milioni i cristiani costretti a subire persecuzioni nel mondo…  

«Si, è incredibile visitare paesi e vedere che quello che per noi sembra normale, cioè vivere in un contesto di libertà religiosa, in alcune parti del mondo non lo è affatto. Ci sono persone che soffrono solo perché esercitano normalmente la loro fede, solo perché si recano a messa… Non voglio ripetermi sul Medio Oriente, una tragedia le cui dimensioni forse non sono ancora state scoperte del tutto, ma ad esempio in alcune regioni e villaggi dell’Africa essere cristiani significa vivere in condizioni di pericolo costante. In Asia pure ci sono persecuzioni, anche se il più delle volte si tratta di restrizioni della vita della Chiesa e dei fedeli e non una proibizione totale. Il fenomeno è andato diffondendosi negli ultimi 10-20 anni e, di pari passo, fortunatamente, è cresciuta l’attenzione sul tema attraverso iniziative come la Giornata di oggi che insegna a non dimenticare questi fratelli sofferenti».

 

La «Giornata in memoria dei missionari martiri» è nata nel 1993 su spinta del Movimento Giovanile Missionario. Dopo 25 anni ci sono ancora giovani interessati alla missione?  

«Ci sono tanti cliché sull’universo giovanile che, fortunatamente, non è omologato. Io ho visto esempi edificanti. Come i volontari, alcuni giovanissimi, partiti su loro stessa richiesta e non come inviati tramite una organizzazione francese per aiutare le chiese cristiane in Siria. O intere famiglie, composte da coppie molto giovani e i loro figli, che lasciano tutto e partono per essere annunciatori del Vangelo in zone lontane. O ancora tutta una serie di iniziative laicali di ri-evangelizzazione. Se è vero quello che dicono le statistiche che ci sono sempre meno religiosi e sacerdoti missionari, che la Chiesa in Europa invecchia ecc, è anche vero che stanno nascendo forme innovative di evangelizzazione che vedono le nuove generazioni coinvolte in prima linea».

 

Questo in Europa. E in giro per il mondo?  

«Ma… ormai tutto è cambiato. Non si può più parlare della «classica» missione Nord-Sud. La missione è globale: Sud-Nord, Sud-Sud… Ricordo un ragazzo messicano studente in Belgio che si è fatto lui annunciatore tra i suoi colleghi dell’Università belgi e molto secolarizzati. In Africa ci sono diocesi africane che si aiutano reciprocamente. La missione è divenuta ormai una realtà molto composita e dice della vitalità del Vangelo che non muore mai».

 

Quella di cui parlava monsignor Romero, scelto come icona della Giornata missionaria di oggi, che sarà presto santo…  

«Di Romero mi ha sempre colpito il fatto che sia stato assassinato mentre celebrava la messa, come a simboleggiare che il suo sacrificio si spiega con quello di Cristo, che non c’era di fondo una volontà umana, un atto di eroismo, ma un rapporto diretto con Cristo. Romero è stato davvero un pastore che si è speso per il suo popolo, al di là delle varie critiche date dalle ideologie sia di una parte che dell’altra. Lui si è «sporcato le mani», come ama dire Papa Francesco».

 

A proposito di Papa Francesco, questa mattina è stato ricevuto in udienza da lui. Cosa può raccontarci?  

«Era una udienza di carattere privato che avevo richiesto per ringraziare il Santo Padre del nuovo incarico affidatomi e del ministero episcopale. Ho portato con me i miei familiari, era contento. Ho ricevuto un grande incoraggiamento da parte sua e anche delle indicazioni molto precise e puntuali sul mio lavoro».

 

Come ha trovato il Papa quindi?  

«Molto bene! Fisicamente vivace, lucido nel lavoro».

Salvatore Cernuzio – VaticanInsider

26 Marzo 2018 | 07:30
Tempo di lettura: ca. 4 min.
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