Africa

Gambia, democrazia fragile tra speranze e incertezze

La notizia della vittoria elettorale, lo scorso 2 dicembre, di Davide – la piccola e indifesa coalizione riunita sotto l’ombrello dello United Democratic Party – contro il gigante Golia – lo spietato tiranno Yahya Jammeh che per oltre 22 anni aveva trasformato il Gambia, una striscia di terra di neanche due milioni di abitanti che dall’Oceano Atlantico si incunea fino al cuore del Senegal, in un enorme campo di detenzione spingendo centinaia di migliaia di persone alla fuga per sottrarsi a sparizioni, massacri e persecuzioni – aveva suscitato tra la popolazione del più piccolo paese d’Africa e nella comunità internazionale, quel tipico sentimento a metà strada tra totale sorpresa ed entusiasmo.

 

Il processo democratico, scosso prima dal rifiuto dell’ex dittatore di accettare il verdetto (Barrow, per due mesi in esilio in Senegal, si è potuto insediare solamente il 18 febbraio) e dalla notizia dello svuotamento delle già esangui casse del tesoro interno da parte di Yammeh prima di ripiegare in esilio in Guinea Equatoriale, ha superato in aprile anche un secondo esame: alle elezioni legislative il partito di Barrow ha stravinto, aggiudicandosi trentuno dei cinquantatre seggi disponibili in Parlamento (a cui sono stati aggiunti altri cinque per premio di maggioranza).

A maggio, poi, l’esecutivo ha preso la saggia decisione di mettere sotto sequestro una novantina di conti bancari e oltre cento beni immobiliari che Jammeh non era ancora riuscito a sottrarre.

 

Ma il Paese, con il 60% della popolazione in miseria, un reddito medio tra i più bassi al mondo (450 dollari annui), un tasso di alfabetizzazione che non supera il 55% (dato decisamente più basso tra la popolazione femminile), con oltre il 70% di abitanti impiegato in una agricoltura di sussistenza ridotta allo stremo da mancanza di investimenti e carestie, stenta a risollevarsi. I suoi tantissimi giovani (gli under 25 sono il 60%), nonostante il felice esito delle vicende politiche, continuano a guardare all’Europa come luogo dove realizzare i propri sogni.

 

Della situazione attuale del Gambia, le sue prospettive, i problemi e le speranze abbiamo parlato con Emile Sambou, vicario generale della diocesi di Banjul.

 

«La situazione è totalmente cambiata, e facciamo ancora fatica a crederlo. Ora siamo davvero liberi in un paese libero. Nessuno ci intimidisce e la gente riesce a fare tutto senza alcun impedimento. Purtroppo, però, molti dei problemi che avevamo prima, restano. Non abbiamo elettricità a sufficienza, manca l’acqua potabile, le riforme stentano a partire per interessi personali dei politici. Le nomine, dal nostro punto di vista, risentono ancora di un’appartenenza etnica e i cristiani, per farle un esempio, sono stati poco coinvolti. Credo che se si fosse lavorato in maniera più inclusiva, non ci troveremmo nella attuale situazione, saremmo stati dove tutti, dopo le elezioni, si aspettavano di essere».

 

La Ue si è mostrata interessata a sostenere il Gambia; di recente anche la Cina si è offerta di aiutare il paese nei settori dell’agricoltura, del turismo, nelle infrastrutture (in cambio della interruzione dei rapporti diplomatici con Taiwan).

 

Si cominciano a vedere i primi risultati?

«Sono piuttosto deluso da come vengono utilizzati i fondi che arrivano in Gambia. Vedo molti politici viaggiare di continuo, muoversi da una parte all’altra del mondo e ho il timore che non ci si stia concentrando a sufficienza sui reali bisogni del popolo. Non vediamo ancora una strategia solida, unitaria, si cambia spesso. Certo, è difficile dopo 23 anni di dittatura riuscire a dare vita a istituzioni democratiche e a farle funzionare: manca la preparazione, manca l’abitudine a vedersi come comunità unita. Proprio per questo bisogna concentrarsi di più, sedersi attorno a un tavolo e tagliare ciò che non serve scegliendo solo lo stretto necessario alla crescita del Paese. Abbiamo avuto una terribile dittatura, c’è bisogno di uno sforzo maggiore, enorme e di pensare meno ai propri interessi. La coalizione sembra ormai sfilacciata in mille fazioni. Si era unita contro il nemico comune ma, una volta sconfitto il nemico, ha preso a farsi una guerra interna e questo non aiuta. Noi speriamo davvero che mettano da parte i dissidi e pensino a servire il popolo. Leadership significa servizio e servizio significa sacrificio».

 

I cristiani rappresentano il 5% della popolazione, i cattolici, l’1,5, ma le Chiese sono impegnate da sempre nel dialogo nazionale. Quali sono i rapporti del governo con la Chiesa?

«Purtroppo non ci sono stati molti contatti con il presidente Barrow (che ricopre anche la carica di Primo Ministro, ndr). La Chiesa cattolica è stata la prima istituzione ad andare a esprimere le proprie felicitazioni per la vittoria. Quando Benjamin Ndiaye, l’arcivescovo di Dakar, è venuto a visitarci in occasione della Festa dell’Assunzione lo scorso 15 agosto, abbiamo avuto l’opportunità di vedere Barrow perché siamo stati ricevuti ufficialmente. Ma da allora non abbiamo avuto ulteriori contatti. Il ministero dell’interno ha avviato un processo di riconciliazione nazionale che mira a creare una situazione di pace e dialogo e a smussare le enormi tensioni che esistono nel Paese tra ex o attuali sostenitori di Jammeh e quelli di Barrow. Funzionari hanno girato il Paese in lungo e in largo e incontrato molta gente. È una iniziativa molto utile e importante ma avremmo apprezzato se ci avessero coinvolto di più. Nessuno di noi è stato convocato ma la Chiesa è da sempre impegnata nel dialogo e nella pacificazione del Gambia. Ci chiamano solo per incontri o iniziative minori».

 

Come vede il futuro del suo Paese e cosa spera?

«Un segnale molto importante ci viene dal fatto che i nostri giovani, seppur in forma ancora limitata, stanno tornando. Nelle scorse settimane sono rientrati molti ragazzi dalla Germania, l’Inghilterra, l’Italia, dai paesi del Golfo. Altri, bloccati in Libia, sono riusciti a fare ritorno. Spero che la leadership politica sia all’altezza di questa nuova situazione, delle aspettative della gente e si metta a lavorare con impegno e onestà. Se faranno così, se saranno in grado di sacrificarsi per il bene comune, le cose miglioreranno e il Paese potrà finalmente diventare ciò che merita».

Luca Attanasio – VaticanInsider

15 Novembre 2017 | 12:20
Tempo di lettura: ca. 4 min.
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