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Francesco in Myanmar e Bangladesh, un viaggio «avventura» tra giovani e Rohingya

«Più che un viaggio sarà un’avventura», dice il portavoce Greg Burke presentando in Sala Stampa vaticana l’imminente trasferta di Papa Francesco in Myanmar e Bangladesh del 26 novembre-2 dicembre. Un viaggio, il 21esimo del suo pontificato all’estero, che non si preannuncia per nulla facile. Anzitutto per alcuni problemi logistici o di comunicazione; ad esempio, sarà difficile una diretta dei diversi eventi del Pontefice (tanto che il portavoce ha parlato di «viaggio old fashion»). Poi per il vespaio di polemiche intorno alla questione Rohingya, la minoranza musulmana perseguitata da decenni e fuggita in massa dallo Stato del Rakhine, che rischia di monopolizzare l’attenzione.

 

Esuli senza acqua né cibo, vittime di violenze e repressioni, respinti da Indonesia, Malesia e Thailandia, almeno cinquemila di loro dispersi nelle acque delle Andamane, i Rohingya hanno destato in diverse occasioni la preoccupazione di Papa Francesco che ha lanciato vigorosi appelli per il riconoscimento dei loro diritti di cittadinanza. Nell’Angelus del 27 agosto scorso il Papa era arrivato anche a denunciare le «persecuzioni religiose ai nostri fratelli Rohingya», esattamente quarantott’ore dopo i durissimi scontri tra i militanti islamici dell’Arsa (l’Arakan Rohingya Salvation Army) e l’esercito birmano, il Tatmadaw, che avevano fatto scattare violente offensive e «operazioni di sgombro» definite da non pochi rapporti internazionali come una vera e propria «pulizia etnica». Una durissima accusa (ribadita proprio oggi dal segretario di Stato Usa, Rex Tillerson) respinta con forza dal consigliere di Stato, Aung San Suu Kyi.

 

La situazione è quindi delicatissima e rischia di detonare da un momento all’altro. Specie se il Papa dovesse pubblicamente pronunciare parole in favore della minoranza. Tanto che la Chiesa locale, guidata dal cardinale Charles Maung Bo, e i confratelli gesuiti hanno suggerito a Bergoglio di evitare in territorio birmano di pronunciare la parola stessa «Rohingya» che provocherebbe squilibri interni della già fragile democrazia. «Il Santo Padre prende molto sul serio i consigli ma vedremo insieme cosa deciderà di fare», ha commentato Burke in merito.

 

In ogni caso Francesco si farà vicino alla piccola comunità incontrando un gruppo di Rohingya nel quadro di un appuntamento interreligioso, ma lo farà in Bangladesh dove oltre 620mila profughi – inclusi numerosi bambini e adolescenti – si sono rifugiati in seguito alle violenze. L’incontro sarà uno degli eventi di maggior interesse dell’intero viaggio ed è stato inserito solo recentemente nell’agenda papale insieme a quello privato del 30 novembre con il generale Min Aung Hlaing, capo dell’esercito al quale si deve la costituzione del 2008 tuttora in vigore, fortemente antidemocratica, che ha retto il Paese con pugno di ferro fino al 2015, quando le elezioni di novembre hanno decretato la vittoria del partito di Aung San Suu Kyi, accettata dai militari contrariamente a quanto fecero in passate elezioni. L’appuntamento con il generale ha riferito Greg Burke, è stato fortemente sollecitato dal cardinale Bo, porpora voluta da Papa Francesco nel Concistoro del febbraio 2015, giunto a Roma di recente per colloqui privati nel Palazzo apostolico.

 

Al di là delle polemiche e delle questioni spinose, il direttore della Sala Stampa della Santa Sede ha sottolineato che quello del Papa in Myanmar sia un evento storico per il fatto stesso che si tratta del «primo viaggio di un Pontefice» nella ex Birmania. Mentre in Bangladesh Francesco sarà il terzo Papa a farvi visita dopo i viaggi di Giovanni Paolo II nell’86, e di Paolo VI nel 1970, quando la capitale Dhaka era ancora territorio del Pakistan.

 

In questa porzione di Asia, il Papa argentino renderà inoltre visibile l’attenzione della Chiesa alle «periferie», considerando la povertà di entrambe le popolazioni (il Bangladesh è uscito solo nel 2015 dall’elenco dei Paesi sottosviluppati), e alle minoranze. In questo caso rappresentate dai cattolici che in Myanmar sono 650mila rispetto a 51 milioni di abitanti, il 91% dei quali di religione buddista; mentre in Bangladesh 375mila su 160 milioni di abitanti, al 98% appartenenti all’Islam, religione di Stato (dunque uno 0,24%).

 

A loro Papa Francesco dedicherà la maggior parte degli eventi, portando «un messaggio di perdono, riconciliazione, pace» ha affermato Burke, evidenziando come entrambe le tappe nei due Paesi si concluderanno con un incontro con i giovani quale «segno di speranza della Chiesa nelle nuove generazioni per la costruzione del futuro».

 

Tra gli eventi più significativi da segnalare nel programma ufficiale quello del 29 novembre a Yangon, in Myanmar, con il Consiglio supremo «Sangha» dei monaci buddisti al Kaba Aye Centre, e con i vescovi nel salone della Cattedrale, al termine del quale il Papa benedirà le pietre di 16 chiese, del seminario e della nunziatura apostolica non ancora costruita. Poi a Dhaka, in Bangladesh, la visita del 30 novembre al National Martyris Memorial di Savar per rendere omaggio al padre della nazione, i cui familiari accoglieranno il Pontefice al Museo; poi la messa dell’1 dicembre con 16 ordinazioni sacerdotali (significativa in un Paese con poco meno di 400 sacerdoti), e l’appuntamento ecumenico ed interreligioso per la pace.

 

In totale, il Papa pronuncerà 11 discorsi e girerà in una macchina chiusa «ma non blindata» oppure in una golf car (una vettura elettrica) per salutare i fedeli. Non c’è nessun timore particolare per la sicurezza, ha spiegato Greg Burke, né si prevede un qualsiasi contatto del Papa con le famiglie delle vittime degli attentati estremisti in Bangladesh. L’ultimo quello terribile del 1° luglio 2016 durante il quale furono trucidati anche nove italiani.

Salvatore Cernuzio – VaticanInsider

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23 Novembre 2017 | 12:26
Tempo di lettura: ca. 3 min.
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