Commento

Francesco e la fragile democrazia del Myanmar

Il Papa arriva a Yangon, in Myanmar, e per la terza volta dall’inizio del suo pontificato visita Paesi dell’Estremo Oriente, segno di un’attenzione particolare dedicata al grande continente asiatico. Dopo la Corea (2014), lo Sri Lanka e le Filippine (2015) il Papa argentino approda nella ex Birmania, lussureggiante Paese dalla fragile democrazia e dalle tante contraddizioni, segnato dal caso dei Rohingya, la minoranza etnico-religiosa musulmana dello Stato birmano del Rakhine, discriminati e perseguitati da decenni: più di mezzo milione di loro sono stati costretti ad abbandonare le loro case per trovar rifugio in Bangladesh. E proprio il Bangladesh sarà – dal 30 novembre – la seconda tappa del viaggio papale. Se per il Myanmar si tratterà della prima visita di un Pontefice, non è così per il Bangladesh, dove vennero già Paolo VI (nel 1970, quando ancora lo Stato indipendente non esisteva, e Dacca si trovava nel Pakistan orientale), e Giovanni Paolo II (nel 1986).

La trasferta di Francesco non doveva inizialmente toccare la ex Birmania, ma prevedeva, nel progetto iniziale, una tappa in India e un’altra in Bangladesh. Solo che l’invito formale da parte del governo indiano è stato continuamente rimandato e quando in Vaticano hanno compreso che non sarebbe mai arrivato in tempo, si è pensato di includere il Myanmar.

 

«Love & Peace» e «Harmony and Peace» sono i motti delle due tappe del viaggio. Francesco arriva come umile pellegrino per incontrare e incoraggiare il piccolo gregge dei cattolici in entrambi i Paesi, e per lanciare un messaggio di pace e dialogo in realtà dove le divisioni e i conflitti etnico-religiosi sono ancora una ferita aperta e sanguinante. E dove povertà, sfruttamento ed emarginazione sono all’ordine del giorno.

 

L’attenzione internazionale è da tempo puntata sulla sorte dei Rohingya, considerati in Myanmar gli eterni «altri» e bollati come «minaccia» per la sicurezza nazionale. Nell’ottobre 1982 il dittatore birmano Ne Win, che ha comandato il Paese con metodi autoritari per 26 anni, presentò la nuova legge sulla cittadinanza dichiarando che kalar (espressione indicante persone dai tratti somatici simili agli indiani) e cinesi non erano affidabili e quindi per motivi di sicurezza nazionale non meritavano status e diritti derivanti dalla piena cittadinanza. L’attuazione di queste direttive rese evidente che in realtà Ne Win non ce l’aveva con tutte le persone di origini indiane, ma con i Rohingya, definiti «musulmani bengalesi illegali», che vogliono separare lo Stato Rakhine del Myanmar per istituire uno Stato islamico. «Le élite nazionaliste e gli intellettuali hanno spesso reiterato l’accusa di puntare ad accrescere la quota musulmana della popolazione tramite un’azione deliberata di matrimoni misti con donne non musulmane, ponendo così una minaccia all’identità buddista della società Rakhine e del Myanmar», scrive Kyaw Zeyar Win sull’ultimo numero di «Rise», la rivista di relazioni internazionali e international political economy del Sud-Est asiatico. La fine della dittatura e l’arrivo al governo di Aung San Suu Kyi non ha portato ripercussioni significative sulla sorte dei Rohingya.

 

La Chiesa cattolica birmana ha chiesto più volte pubblicamente al Papa, ancora nei giorni scorsi, di non nominare direttamente la minoranza Rohingya, per non provocare un aumento della tensione già alta. Il governo del Myanmar, proprio alla vigilia dell’arrivo di Francesco, ha siglato un memorandum d’intesa con il governo del Bangladesh per il ritorno nello Stato del Rakhine delle centinaia di migliaia di profughi fuggiti in seguito alle repressioni dell’esercito dopo gli attacchi terroristici dello scorso agosto. Nel momento dell’esplosione della crisi più recente, intervenendo all’Angelus, il Pontefice aveva lanciato un forte appello in favore dei Rohingya chiamandoli per nome.

 

Nell’atteso discorso che pronuncerà martedì 28 novembre nella capitale Nay Pyi Taw Francesco – salvo sorprese dell’ultima ora sempre possibili – farà sentire la sua voce in favore delle minoranze etnico-religiose, pur evitando di menzionarle per nome, richiamando all’impegno per la pace, il dialogo, i diritti umani.

 

A preoccupare nel Paese sono infatti anche i problemi di altre minoranze, come i 400.000 sfollati interni appartenenti alle etnie Kachin, Karen, Chin, e Shan: pur essendo meno considerati dai circuiti mediatici internazionali sono anch’essi discriminati e vivono situazioni di tensione con l’esercito. I 120.000 sfollati Kachin sono soprattutto cristiani e si trovano in campi profughi da oltre sei anni.

 

In viaggio in Myanmar e Bangladesh sarà importante dal punto di vista del dialogo interreligioso: a Yangon il 29 novembre Francesco incontrerà il consiglio supremo «Sangha» dei monaci buddisti, e il primo dicembre, a Dacca, parteciperà a un incontro interreligioso ed ecumenico per la pace presso l’arcivescovado della città.

Andrea Tornielli – VaticanInsider

| © unsplash.com
27 Novembre 2017 | 13:24
Tempo di lettura: ca. 3 min.
bangladesh (33), commento (222), Myanmar (57), Papa (1254), Viaggio apostolico (162)
Condividere questo articolo!