Ticino e Grigionitaliano

Fra Michele Ravetta: l'assenza del segno della pace durante la Messa ci invita ad un'altra condivisione

Detto così, potrebbe suonare un po’ cinico, ma vorrei cercare di sdrammatizzare questi tempi difficili per la salute mondiale. L’arrivo del virus ha portato – a mio parere – una novità in qualche modo anche «positiva » (tra virgolette, naturalmente): il tran tran che «contamina» l’esercizio della pastorale di accompagnamento delle persone e quella celebrativa nelle nostre chiese, hanno ricevuto un certo scossone. Non mi riferisco al consiglio (auspicato!) di lavarsi più spesso le mani o di non tossire nella mano ma nel fazzoletto o nella piega del gomito; piuttosto penso a quei gesti che fanno ormai parte della ordinaria celebrazione dell’Eucaristia e con le attuali disposizioni prese a favore della salute pubblica e l’introduzione di misure anti propagazione, hanno generato un po’ di inquietudine nei fedeli. Queste misure precauzionali che si ripercuotono sul «si è sempre fatto, ma ora non più» offrono a tutti però la possibilità per suggerire nuovi modi per celebrarli. Certo, all’inizio è un po’ strano non darsi la mano al momento che precede la comunione ma, dico: sfruttiamo questo tempo di pandemia per andare in profondità nel senso di questo gesto per capire che la stretta di mano liturgica ha un significato di profonda condivisione del progetto di felicità che Dio ha per noi. In quella stretta vi è la condivisione di un cammino e il dirsi tacitamente: «Ti voglio bene, per me sei importante e, nel caso tu cadessi, conta su di me». Certo, questa «stretta di mano» ci manca, ma forse in questi tempi del virus possiamo grattare via la patina abitudinale del segno di pace e prepararci a ripeterlo in modo nuovo, non appena ci verrà concesso. Visto che nella pastorale carceraria di cui mi occupo il «darsi la mano» è un gesto molto forte e significativo per la popolazione che vive dietro le sbarre, tutt’altro che scontato tra i fratelli detenuti, da domenica scorsa ho pensato di invitare i miei fedeli ad incrociare lo sguardo, con profondità, come strumento per augurarsi la pace, da farsi però ad un metro di distanza, come viene indicato dalle nuove disposizioni. Facile dare la mano, anche a chi ti fa venire il mal di pancia ma, ahimé, non puoi fare la figura del cafone e girarti dall’altra parte; di tutt’altra valenza ed impegno è guardare l’altro negli occhi, augurandogli la pace, senza contatto fisico, senza barriere di pregiudizio, senza maschere, così, da cuore a cuore. Memori di uno dei passi biblici a mio avviso più disarmanti: «Gesù, fissatolo, lo amò» (Mc 10,21). Il virus, a sua insaputa, ha infranto uno schema celebrativo e sociale, quello del segno della pace, talmente consolidato da essersi rivestito di normalità, mentre questo augurio dovrebbe sempre sconvolgere la nostra anima! Allora torniamo ad augurarci la pace nei nostri cuori, a guardarci negli occhi – specchio dell’anima – rispettando le distanze indicate nella normativa, e che la pace sia con noi!

Fra Michele Ravetta, Cappellano carcerario

8 Marzo 2020 | 13:02
Tempo di lettura: ca. 2 min.
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