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Commento

Fame causa di guerra? Pericolosi sono i prezzi...

di Paolo Beccegato
Italia Caritas – febbraio 2017

Il mondo è sempre più percorso da migranti in fuga da povertà estrema e guerre, spesso correlate tra loro. La fame però non è necessariamente una causa sufficiente per scatenare un conflitto armato. Amartya Sen, riferendosi alla carestia del Bengala del 1943, sostiene che le persone colpite dall’inedia tendono normalmente all’abbandono e all’inazione, a causa dell’estrema debolezza e per la difficoltà di individuare un bersaglio alla loro ostilità. Altro esempio, il caso dell’embargo inflitto all’Iraq, dal 1992 all’occupazione militare del 2003: l’idea dietro le sanzioni era suscitare una rivolta della popolazione sciita, che soffriva, con l’oppressione della dittatura, le peggiori conseguenze dell’embargo. Ma ciò non avvenne, nonostante la malnutrizione cronica fosse aumentata drammaticamente, insieme alla mortalità infantile. Anzi, la rabbia degli sciiti, e degli iracheni in generale, si rivolse contro il nemico lontano, l’Occidente, che aveva inflitto le sanzioni.
Tuttavia, è evidente come nel 2011 l’aumento del prezzo del cibo sia stato una delle cause all’origine delle cosiddette «primavere arabe», in Libia, Yemen, Tunisia, Egitto e Siria. Analogamente a quanto avvenuto nel 2008 in 48 paesi, tra cui l’Egitto stesso. Sovrapponendosi a una situazione di violazione dei diritti umani e di assenza di democrazia, il prezzo del cibo e la malnutrizione agiscono da catalizzatore di un malessere diffuso, e di forti tensioni che esistono nella società, trasformandoli in violenza.
Tanto pane quanto vita
Il pane ha sempre rappresentato, nel mondo arabo, una fonte di sostentamento a basso prezzo. In Egitto, la parola «aish» significa tanto «pane» quanto «vita». L’intera area della Mezzaluna fertile, dal Nilo al Tigri e all’Eufrate, dove l’agricoltura storicamente è nata, è oggi la massima importatrice di cibo nel mondo. In Egitto, che importa il 50% del suo fabbisogno calorico ed è il massimo importatore di grano al mondo, la crisi del prezzo del cibo del 2007-08 aumentò il costo del pane del 37%. In seguito, subito prima della caduta di Mubarak, il meccanismo inflattivo portò l’aumento annuo del prezzo del pane al 18,9%.
Il pane è quindi un alimento fortemente esposto alla fragilità di un mercato che si affida in massima parte a paesi esportatori di grano molto instabili climaticamente e politicamente, primi fra tutti Russia e Ucraina, oggi in guerra fra loro. E quando un’ondata di calore in Russia provoca il raddoppio del prezzo del pane in Libia, vuol dire che la vulnerabilità è diventata eccessiva. Questa fragilità si inserisce in un mercato dell’agricoltura non di sussistenza, dominato da pochissime compagnie multi-nazionali, dal «land grabbing» e dai capricci del mercato finanziario.
Se gli occidentali generalmente spendono il 10% del loro reddito per l’acquisto di cibo, ci sono almeno due miliardi di persone nel mondo che per mangiare spendono il 50-70% di quanto guadagnano. Un aumento del prezzo, anche modesto, può provocare per loro effetti devastanti. È questa vulnerabilità, più che la fame vera e propria, a trasformare il cibo in causa di instabilità e guerra. Sono i cambiamenti nella sicurezza alimentare a generare cambiamenti nella conflittualità.
In questo senso, politiche di stabilizzazione dei prezzi e reti di sicurezza comunitarie, nazionali e regionali, sono strumenti indispensabili per prevenire i conflitti violenti, mentre l’assistenza può aiutare la costruzione della pace, la stabilità dei governi e a ricostruire il capitale sociale. In mancanza di questi meccanismi, insicurezza alimentare e fame possono causare guerre, oggi molto più facilmente di trent’anni fa. È esattamente quanto sta capitando.
Occorre dunque rafforzare approcci orientati alla prevenzione e alla risoluzione di conflitti (spesso armati) che hanno cause reali precise, rimosse le quali si può avviare un processo di riconciliazione e pace. Questi approcci si basano su politiche nonviolente: quelle che papa Francesco ha indicato con forza e grande acume politico, oltre che etico e pastorale, nel suo messaggio per la 50ª Giornata mondiale per la pace.

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27 Febbraio 2017 | 12:00
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fame (28), guerra (162)
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