Esercizi spirituali, «l’invidia» che impedisce di comprendere la logica della misericordia

Non è Dio ma è l’Io «il principio e la fine di tutte le cose». È questo il più grave problema del nostro tempo dettato dalla «società dei consumi» che identifica «la felicità con la sazietà» e dominato da «un desiderio alla deriva» che spinge al facile arbitrio, al capriccio, all’edonismo. «Un vortice ingannevole» lo definisce don José Tolentino Mendonça nella sua meditazione – l’ottava – degli Esercizi Spirituali di Quaresima con il Papa e la Curia ad Ariccia, durante la quale traccia, con amaro realismo e venature poetiche, un’analisi dell’attualità.

 

Nel racconto evangelico i fratelli sono due: entrambi sbagliano, afferma il predicatore, chi per un motivo chi per un altro. Il più giovane, spinto da un bisogno di libertà – un «desiderio alla deriva», appunto -, compie scelte totalmente sbagliate per la sua vita. Dall’altra parte il figlio maggiore è logorato dalla «invidia»: una «patologia del desiderio», sottolinea Tolentino, che indica la «rivendicazione sterile e infelice» di un amore che sembra venir meno.

 

Il figlio maggiore non è riuscito a risolvere la relazione con il fratello ed «è ancora lacerato da aggressività, barriere e violenza». Gli stessi sentimenti «che con grande facilità si infiltrano in noi»: «la difficoltà di vivere la fraternità, la pretesa di condizionare le decisioni del padre, il rifiuto di gioire del bene dell’altro», rileva don José. «Tutto ciò crea in lui un risentimento latente e l’incapacità di cogliere la logica della misericordia».

 

Quella logica di cui il padre della parabola è «l’icona» assoluta, come ribadito spesso anche da Papa Francesco. Quest’uomo «ha due figli e capisce che deve rapportarsi a loro in maniere differenti, riservare a ciascuno uno sguardo unico». È questa, in fin dei conti, la misericordia: «Non dare all’altro quello che si merita», ma dare «compassione, bontà, perdono». È «dare di più, dare al di là, andare oltre», un «eccesso di amore» che cura le ferite. «La misericordia è uno degli attributi di Dio. Credere in Dio è, dunque, credere nella misericordia. La misericordia è un Vangelo da scoprire», afferma il sacerdote.

 

La parabola del Figliol prodigo allora ci interroga e ci mette in discussione perché evidenzia che «dentro di noi, in verità, non ci sono solamente cose belle, armoniose, risolte. Dentro di noi ci sono sentimenti soffocati, tante cose da chiarire, patologie, fili innumerevoli da connettere. Ci sono zone di sofferenza, ambiti da riconciliare, memorie e cesure». Tutte questa, conclude Tolentino, vanno «lasciate a Dio perché le guarisca».

 

Le fragilità umane sono state al centro anche della meditazione di ieri pomeriggio del vicerettore dell’Università Cattolica di Lisbona. Non sono le fragilità, le nostre «povertà» l’ostacolo ad incontrare Dio, ha spiegato il religioso, ma lo sono anzi le rigidità: «Non è la vulnerabilità e l’umiliazione, ma il suo contrario: l’orgoglio, l’autosufficienza, l’autogiustificazione, l’isolamento, la violenza, il delirio di potere. La forza di cui abbiamo davvero bisogno, la grazia di cui necessitiamo, non è nostra, ma di Cristo», spiega il sacerdote.

 

In questo senso bisogna «imparare a bere dalla propria sete», essa «ci umanizza» e costituisce «una via di maturazione spirituale». Il discorso vale per il singolo credente ma anche per tutta la Chiesa che, ammonisce il predicatore, «non deve isolarsi in una torre d’avorio», né «riprodurre pratiche e comportamenti, diventando custode del sacro». La Chiesa deve essere anzi «discepola», «nomade», così che anche i non credenti possano guardare con freschezza sorprendente alla vita di fede.

 

Un altro rischio per la Chiesa è quello «di far fare agli altri, cammini anche esigenti mentre noi rimaniamo seduti. Bisogna stare attenti che la sedentarietà non diventi anche spirituale, un’atrofia interiore», avverte padre José. La spiritualità va vissuta come «un’avventura comunitaria», aggiunge citando il libro di Gustavo Gutiérrez «Bere dal proprio pozzo. L’itinerario spirituale di un popolo».

 

Questo pozzo da cui bere è la vita spirituale concreta, ferita da contingenze e ristrettezze: «L’umanità che noi fatichiamo ad abbracciare, la nostra stessa e quella degli altri, è l’umanità che Gesù abbraccia veramente , poiché egli si china con amore sulla nostra realtà, non sulla idealizzazione di noi stessi che ci andiamo costruendo. Il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, insomma, comporta per noi una visione non ideologica della vita».

 

In conclusione, don José Tolentino ricorda le tre tentazioni di Gesù nel deserto e mette in guardia dal diavolo che «vuole essere adorato», ma il suo potere è solo «apparenza». «È un rischio enorme – dice – quando la tentazione del potere, su scala più o meno grande, ci allontana dal mistero della Croce, quando ci allontana dal servizio dei fratelli. Gesù insegna, invece, a non lasciarsi schiavizzare da nessuno e a non fare nessuno schiavo ma a rendere culto solo a Dio e a servire: noi non siamo padroni, siamo pastori».

Salvatore Cernuzio – VaticanInsider

23 Febbraio 2018 | 07:00
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