Esercizi spirituali, le lacrime raccontano la nostra vita: Dio le conosce tutte

È un «elogio» delle lacrime la predicazione di don José Tolentino Mendonça nel quarto giorno di Esercizi spirituali ad Ariccia con il Papa e la Curia romana. È attraverso le lacrime che «la nostra biografia può essere raccontata», afferma il sacerdote portoghese: lacrime «di gioia, di festa, di commozione luminosa; e di notte oscura, di lacerazione, di abbandono, di pentimento e di contrizione».

 

In entrambi i casi, esse rivelano una «sete di vita» e un desiderio «di relazione», indica Tolentino, richiamando le affermazioni della psicoanalista atea Julia Kristeva, secondo la quale quando un paziente depresso arrivava a piangere sul divano vuol dire che stava cominciando a prendere le distanze dalla tentazione del suicidio, perché le lacrime non narrano il desiderio di morire ma «la nostra sete di vita».

 

Don José invita quindi a pensare «alle nostre lacrime versate, e a quelle che sono restate un nodo in gola e la cui mancanza ci è poi pesata, o ci pesa ancora». Invita, dunque, a rievocare «il dolore di quelle lacrime che non sono state piante» perché «Dio le conosce tutte e le accoglie come una preghiera».

 

Dio «raccoglie tutte le lacrime del mondo», rimarca il teologo. Nella sua meditazione – riportata da Vatican News – lascia affiorare, poco a poco, gli esempi delle tante donne presenti nel Vangelo. Diverse per condizione esistenziale, economica, età, esse evangelizzano con il loro stile di servizio, con il loro rapportarsi a Gesù, e sono unite tutte da queste lacrime che traboccano gioie e ferite.

 

«Le lacrime dicono che Dio s’incarna nelle nostre vite, nei nostri fallimenti, nei nostri incontri», annota Tolentino, «nei Vangeli, anche Cristo piange. Gesù si carica della nostra condizione, si fa uno di noi, e per questo le nostre lacrime sono inglobate nelle sue. Le porta con sé veramente. Quando piange, raccoglie e assume solidalmente tutte le lacrime del mondo».

 

Allora «abbiamo fiducia», incoraggia il predicatore, «non nascondiamo» a Dio le nostre lacrime. Molti grandi santi ci sono di esempio in questo: Ignazio di Loyola che piangeva copiosamente, o Gregorio Nazianzeno per cui le lacrime erano «un quinto battesimo». E come affermava il filosofo Cioran, nel giudizio finale verranno pesate soltanto le lacrime che danno un senso di eternità al nostro divenire. Il dono della religione è perciò proprio quello di insegnarci a piangere: «Le lacrime sono ciò che può renderci santi dopo essere stati umani».

 

Don José Tolentino cita anche le lacrime di Nelson Mandela, mentre era recluso in prigione: «Si ritrovò gli occhi così rovinati che perdette la capacità di versare le lacrime ma non la sete di giustizia».

 

Le lacrime inoltre, prosegue, sono indice di una sete di «relazione», nel senso che quando si piange ci si sforza di non far vedere all’altro che piangiamo ma la verità è che piangiamo sempre perché l’altro veda. «È la sete dell’altro che ci fa piangere», come quando arriva un amico e piangiamo sulla sua spalla nella certezza di poterci abbandonare alle nostre emozioni più intime.

 

Nella sua riflessione di ieri pomeriggio padre José Tolentino ha invece trasportato il Papa e i membri della Curia al momento del Calvario di Cristo e alla sua «sete» in quell’ora tragica della sua vita, «segno del realismo della sua morte». Per tre volte, l’evangelista Giovanni – ha osservato il sacerdote – riporta l’espressione «avere sete» nel suo Vangelo: quando Gesù incontra la samaritana, nel discorso del pane della vita, e durante la festa delle capanne dove il Messia annuncia: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me».

 

Così anche sul Calvario Gesù manifesta il suo desiderio di bere. Al posto dell’acqua riceve però aceto, e Lui dopo averne preso sospira: «È compiuto», per poi chinare il capo e riconsegnare lo Spirito. «La sete è così il sigillo del compimento della sua opera e, allo stesso tempo, del desiderio ardente di fare dono dello Spirito, vera acqua viva capace di dissetare radicalmente la sete del cuore umano», evidenzia il predicatore.

 

«La sete di cui Gesù parla – prosegue – è una sete esistenziale che si placa facendo convergere la nostra vita verso la sua». La sua sete «è rompere le catene che ci chiudono nella colpevolezza e nell’egoismo, impedendoci di avanzare e di crescere nella libertà interiore». La sua sete «è liberare le energie più profonde nascoste in noi perché possiamo diventare uomini e donne di compassione, artigiani di pace come lui, senza fuggire la sofferenza e i conflitti del nostro mondo spezzato, ma prendendovi il nostro posto e creando comunità e luoghi d’amore, così da portare una speranza a questa terra».

 

«Aver sete è avere sete di Lui», pertanto «siamo chiamati a vivere di una centralità cristologica: uscire da noi stessi e cercare in Cristo quell’acqua che spegne la nostra sete, vincendo la tentazione di autoreferenzialità che tanto ci fa ammalare e tiranneggia». Il primo passo, rimarca Tolentino, ripetendo l’invito già espresso nelle scorse catechesi, è «di comprendere la sete che alberga nel cuore umano e di disporci a servirla», rispondendo «alla sete di Dio, alla carenza di senso e di verità, al desiderio che sussiste in ogni essere umano di essere salvato, anche se è un desiderio occulto o sepolto sotto i detriti esistenziali».

Salvatore Cernuzio – VaticanInsider

21 Febbraio 2018 | 18:30
Tempo di lettura: ca. 3 min.
Condividere questo articolo!