Internazionale

Elezioni in Kenya, tutto da rifare

Si temeva un revival delle proteste seguite alle elezioni del dicembre 2007, quando la violenza si scatenò in molte aree del paese e alla fine i morti furono oltre 1.200 mentre le persone costrette alla fuga, più di 400mila. Questa volta, fortunatamente, non si è giunti a quei drammatici livelli, ma, come spesso accade quando si aprono le urne in Kenya, si è verificato ugualmente qualcosa di clamoroso. Per la prima volta nella storia del Kenya – e di tutto il continente – la Corte suprema ha invalidato l’esito delle elezioni dell’8 agosto scorso e richiamato nuovamente tutti al voto il prossimo 17 ottobre.

Il 72enne capo della coalizione della National Super Alliance (Nasa), Raila Odinga, rimasto fermo al 44,81%, sicuro anche questa volta (per lui la terza e ultima, data l’età, ndr) di essere stato frodato, ha parlato immediatamente di gravi brogli e chiesto l’intervento della Corte Suprema. Il presidente uscente, invece – il 56enne Uhuru Kenyatta, figlio del primo presidente dall’indipendenza dalla Gran Bretagna, attorno a cui si era raccolta una coalizione facente capo al partito Jubilee – si diceva tranquillo, forte di un solido 54,31% di preferenze.

 

All’indomani del voto, il fronte anti Kenyatta ha chiamato a raccolta i propri seguaci invitandoli a scendere in piazza sbandierando «prove schiaccianti sulla manipolazione del voto». Nelle principali città, e in special modo nell’hinterland di Nairobi o nella città di Kisumu – zone dove Odinga aveva ottenuto la maggioranza – dalle proteste pacifiche si è passati agli scontri durissimi. «Perdere anche una sola vita a causa delle elezioni è abominevole» aveva denunciato, preoccupata, lo scorso 17 agosto, la Conferenza episcopale del Kenya puntando il dito su chi fomenta indiscriminatamente la violenza e in particolare sulle unità della polizia antisommossa che hanno ingaggiato una vera e propria battaglia con i manifestanti anziché proteggerli. «Ferire e mutilare qualsiasi persona è inaccettabile. Non si deve permettere che accadano cose simili in una società civile come il Kenya» hanno poi concluso.

 

Ma le cose, dopo le prime settimane di turbolenze (alcune fonti parlano di una trentina di morti), sembravano essere tornate alla normalità. Il presidente Kenyatta aveva dichiarato di volere tendere una «mano con amicizia e collaborazione» all’opposizione e invitato tutti a «lavorare insieme per far diventare grande il Paese» mentre Odinga faceva sapere di aver rinunciato alla convocazione di uno sciopero generale.

 

Invece, come un fulmine a ciel sereno, l’1 settembre, giunge laconico il giudizio di David Maraga, presidente della Corte suprema kenyana: «L’elezione non è stata costituzionale». La Corte ha accolto l’istanza di Odinga e dell’opposizione e ordinato un nuovo scrutinio.

 

Segnali inquietanti, a ridosso del voto, ce ne erano stati. Primo fra tutti l’omicidio di Chris Msando, il responsabile nazionale per il sistema informatico elettorale. L’uomo, apparentemente sostenuto dalla fiducia di tutto l’arco politico, una decina di giorni prima delle elezioni, è stato rapito e ucciso. Il suo corpo, orribilmente mutilato e torturato, è stato ritrovato senza vita nell’ultimo fine settimana di luglio.

 

A Vatican Insider Padre Pierli, comboniano, docente universitario, tra i protagonisti della fondazione dell’Università Cattolica, spiega il percorso – duro ma positivo – che il Kenya sta facendo per giungere a essere una democrazia compiuta, e analizza il momento del paese africano, sospeso com’è tra crescita socio-economica, focolai di violenza e richieste di maggiore democrazia e partecipazione.

 

«Anche nel 2013 Odinga ricorse alla Corte ma non ebbe successo. Questa volta, invece, hanno accolto l’istanza. Questo è un indicatore molto positivo a livello geopolitico: in Africa, molto spesso, chi ha il potere politico, gestisce anche quello giudiziario. Pensate a Mugabe o Museveni. Certo, i sessanta giorni che ci separano dalle nuove elezioni potranno creare instabilità e campi come il turismo o gli investimenti esteri potrebbero risentirne. Ma tutto considerato, l’aspetto positivo è maggiore del negativo. Dei sei giudici della Corte, quattro hanno dato parere favorevole al ricorso. Il processo è stato trasparente e considero molto importante che Kenyatta abbia fatto un discorso alla nazione dicendosi convinto della vittoria ma chiamando tutta la popolazione a rispettare il verdetto. «State calmi – ha detto – perché questa è la legge e la legge è al di sopra di chi comanda». Accettando la decisione ha dato un grande contributo al Paese».

 

Nel 2007 a ridosso delle elezioni ci furono oltre mille morti. Cosa è cambiato da allora?

Le cose sono profondamente cambiate. Nel 2007 si votava con la vecchia costituzione fatta in Inghilterra nel 1962 secondo cui il capo dello Stato era tutto e la separazione dei poteri non era affatto chiara. All’epoca, quindi, non c’erano strumenti legali e costituzionali per verificare la validità del voto. Dal 2010, in seguito al referendum, è stata approvata la nuova Costituzione, uno strumento assolutamente democratico, con una netta distinzione dei tre poteri. L’opposizione che non riconosce la validità, ha strumenti per verificare, lo dimostrano proprio le vicende di questi giorni. Possiamo dire che nel 2007, la vecchia costituzione sosteneva ancora il sistema autocratico vigente. Nel 2010 è avvenuto il passaggio da autocrazia a democrazia. Il fatto che ci sia stato il 78% di affluenza al voto è per me un altro segnale positivo».

 

I vescovi sono scesi in campo più volte per richiamare tutti alla calma. Qual è il ruolo della Chiesa nel processo di pacificazione, dialogo e sviluppo del Paese?

«La conferenza episcopale e gli organismi delle altre religioni sono da vari anni un segnale davvero positivo (i fedeli sono così ripartiti: cattolici 25%, protestanti 55% -anglicani – musulmani 10% e resto induisti e vari, ndr). Abbiamo una grande tradizione di collaborazione iniziata nel 1997. La parola Ufungamano – collaborazione – è lo slogan principale. Per preparare al meglio il clima elettorale, ogni lunedì, da gennaio, tutti i rappresentanti delle varie fedi si riunivano e i martedì successivi incontravano i vari esponenti dei partiti per favorire un clima di dialogo. È stato un ottimo esempio di collaborazione tra le fedi e con le parti politiche, tutto a beneficio della democrazia e della pace. Io stesso faccio parte di un gruppo che coordina i parlamentari cattolici e che li sostiene nel processo di formazione sia spiritualmente che politicamente (i cattolici sono la maggioranza in parlamento, circa il 55%, ndr)».

 

Quali sono i problemi maggiori che il nuovo governo dal 18 ottobre si troverà ad affrontare?

«Uno dei maggiori problemi sono le infrastrutture: bisognerà subito aggredire la questione delle strade asfaltate, la linea ferroviaria, l’elettrificazione di tutto il Paese. Poi dovranno sostenere di più il processo di devolution. Abbiamo 47 contee ognuna con un governatore, ma le tasse convergono ancora troppo verso il centro. Una grande sfida, poi, sarà reinventare il sistema educativo: ci si è molto concentrati sull’avere università in tutte le aree ma abbiamo dimenticato la formazione dei tecnici, degli artigiani, di cui abbiamo infinitamente bisogno. Ovviamente un problema ancora molto grave è la gestione dei rifiuti: nelle grandi città il sistema è deregolato, per tanti mesi abbiamo avuto il colera. E poi, l’acqua potabile. Se però ci guardiamo intorno, siamo circondati da paesi in cui non c’è democrazia e possiamo quindi ritenerci soddisfatti di quanto fin qui fatto, anche se dobbiamo ripetere le elezioni».

Luca Attanasio – News.va

8 Settembre 2017 | 12:17
Tempo di lettura: ca. 4 min.
elezioni (21), kenya (13)
Condividere questo articolo!