Di cielo e di fango: la fragilità umana messa a nudo dall'imprevisto

Prima di qualche settimana fa non so quale fosse la parola più usata in Europa, ma ora credo sia Coronavirus. A dire il vero ci sono state, nel corso degli anni, parole simili, anche se poi forse si sono dimenticate: Diossina, Chernobyl, Aviaria, Sindrome della Mucca Pazza, per fare qualche esempio, così come in tempi più antichi vi erano parole che evocavano mostri inafferrabili, come Peste e Lebbra. Per i credenti, specie di altri tempi, Diavolo e Inferno erano altrettanto minacciose. Tutti questi termini hanno una caratteristica in comune: sono propriamente inafferrabili e misteriosi, mettono in evidenza la nostra fragilità, la precarietà della condizione umana. La tecnologia e la scienza su cui contavamo per tutte le risposte, così come l’informazione globale e puntuale al minuto, anziché rassicurare ci preoccupano e mettono in luce come tutti si stanno muovendo a vista, anche se ragionevolmente si sta facendo tutto per bene e il fenomeno, se non è ancora debellato, è monitorato come mai un altro. Questo perché viviamo in una società frammentata, in cui la perdita di una sicurezza, per esempio di muoverci liberamente senza rischi, equivale ad una vera e propria catastrofe psichica, più grave in chi non ha punti fermi, serenità di senso, accoglienza dell’oggi come di un bene e di un’occasione. Quello che più ci spaventa è la solitudine, l’isolamento, la sfiducia nelle relazioni: ora chiunque è un potenziale pericolo, senza segni premonitori. Non stupiscono allora gli assalti ai supermercati, l’incetta o addirittura il furto di mascherine o disinfettanti, la ricerca a tutti i costi di riti o aspetti rituali anche se le Chiese locali, da una parte e dall’altra del confine, prendono misure in accordo con i rispettivi responsabili del bene comune e della salute pubblica, per modificarne alcune forme o sospenderli temporaneamente. Le reazioni spaventate della gente non sono i segni di un egoismo esasperato, ma di una paura antica, in un mondo, il nostro, in cui non esiste più la tribù ma la massa che è mossa da emozioni viscerali e primitive. La tribù o più modernamente la comunità è qualcosa di diverso, è il luogo della sicurezza, della casa, da salvare perché senza di essa non sopravviveremmo, nella foresta dei predatori o nelle sabbie mobili del relativismo culturale. Chi ha un bagaglio di senso nella propria vita, sa che ciò che accade non è quasi mai impossibile da affrontare, attraverso la fiducia, la capacità di osservare le cose per quello che sono, accogliendo per esempio le indicazioni che vengono dalle autorità civili e religiose, senza panico, ricordando che questo virus uccide meno della violenza domestica. Chi questo patrimonio di saggezza umana unisce all’esperienza di una Paternità Misericordiosa e Provvidente, sa che anche in questa circostanza non è solo, non è abbandonato, può trasformare il fango della propria debolezza, nel capolavoro che con il fango ha fatto il Creatore. Non è un’opera nostra, ma abbiamo la certezza che può accadere, per mezzo dello Spirito che abbiamo ricevuto, come ci ricorda San Paolo, proprio per non ricadere nella paura. Questo stesso Spirito ci raduna nell’intercessione che ci fa fratelli, uomini e donne di speranza, non ingenui, ma sereni, prudenti e fermi, ricordando che la comunione non si esaurisce nei rituali, ma ha la forza di una Presenza reale. Lo sapeva bene il Cardinale Van Thuan (1928-2002), che ha celebrato l’eucaristia con tre gocce di vino e una goccia d’acqua nel palmo della mano, per anni, in una oscura prigione vietnamita e non aveva dubbi sulla sua unità e appartenenza all’unica Chiesa.

Dante Balbo, psicoterapeuta e diacono permanente della diocesi di Lugano

1 Marzo 2020 | 07:34
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