Tra i deportati in Messico: «Il muro? Lo scavalcheremo»

«Facevo stupidaggini» confessa Martin Pina, «perciò mi hanno beccato e deportato, quattro giorni fa». Quali stupidaggini? «Vendevo erba. Ho già fatto nove anni di prigione in California, poi altri otto, e se mi beccano la terza volta mi danno l’ergastolo. Però mia moglie e mio figlio, che ha 22 anni ed è nato negli Stati Uniti, sono dall’altra parte del confine, e quindi prima o poi dovrò cercare di tornare».

Incontro Martin nel cortile della Casa del Migrante, un centro di assistenza fondato 29 anni fa dai padri scalabriniani a Tijuana. Sul braccio destro ha un tatuaggio enorme della cantante messicana Selena, e su quello sinistro di sua madre Belinda. Lui è l’esempio dei 3 milioni di criminali che Donald Trump vuole cacciare subito dagli Stati Uniti, ma anche della guerra che lo aspetta: «Penso che il nuovo presidente – dice Martin – farà quello che ha promesso. Se potesse, la gente come me la impiccherebbe». Neanche questo, però, basterebbe a risolvere il problema: «Io sono un pesce piccolo, e non conosco i capi del cartello di Sinaloa che controllano questa regione. L’unica maniera che ho per vivere, però, è questa. Cosa devo fare? Se costruirà il muro, continueremo a saltarlo, oppure a scavargli sotto i tunnel. Se ci deporterà, continueremo a tornare».

Questo viaggio al termine dell’emergenza più intricata degli Stati Uniti comincia alla «Door of Hope», la porta lungo la recinzione al confine col Messico, che gli agenti dello Us Border Patrol aprono ogni sabato e domenica per consentire alle famiglie di riunirsi. Sta in fondo al Border Field State Park di San Diego, ed è la sintesi del dramma. Appena mi avvicino, un agente mi viene incontro sul fuoristrada che pattuglia la frontiera. Si chiama Arriaga e chiede: «Cosa ci fa qui?». Un articolo. «E’ zona vietata, se ne deve andare». Ma questo non è il luogo simbolo della riconciliazione? «Sì, ma lei se ne deve andare lo stesso». Arriaga non ha il permesso di commentare le nuove politiche proposte dal presidente eletto Trump, ma per lui ha già parlato il capo del sindacato dei 16.500 doganieri, Brandon Judd, che durante la campagna elettorale aveva appoggiato il candidato repubblicano: «Il capo è cambiato, e il clima pure. Ci saranno agenti che smetteranno di applicare le direttive di Obama, e arresteranno più illegali. Per due motivi: accontentare il nuovo Presidente, e fermare l’assalto al confine dei migranti, che vogliono approfittare degli ultimi due mesi rimasti prima della nuova amministrazione per riuscire ad entrare».

I doganieri stanno con Trump, era chiaro anche prima del voto. Almeno in California, però si prepara uno scontro con le autorità locali e la società civile. Il governatore e i sindaci sono tutti democratici, e anche se l’immigrazione è un tema federale, ostacoleranno i piani del nuovo Presidente. Ad esempio non fornendo le liste dei presunti illegali, e continuando l’assistenza ai nuovi arrivi. Anche la società civile e la Chiesa sono schierate così. Negli Stati Uniti vivono circa 750.000 ragazzi che hanno approfittato del Daca, il provvedimento di Obama che protegge dalle espulsioni i giovani illegali portati nel paese dai genitori quando erano bambini. Oltre 200.000 abitano nella sola contea di Los Angeles, dove l’arcivescovo ha già detto che non collaborerà con le espulsioni. Lui è un conservatore, viene dall’Opus Dei, è stato nominato da Benedetto XVI, e la maggior parte dei cattolici ha votato Trump. Però si chiama Gomez, è nato in Messico, e su questo punto crede che la gloria conti più del potere. «Noi – mi spiega la portavoce della diocesi di San Diego, Aida Bustos – pensiamo che dobbiamo costruire ponti, non muri. Infatti il 10 dicembre il nostro vescovo, Robert McElroy, terrà in una posada al confine col Messico, una cerimonia natalizia in cui i fedeli di entrambi i Paesi pregheranno insieme, attraverso la recinzione metallica».

Aida dubita che le politiche di Trump saranno efficaci, per ragioni pratiche: «Noi gli immigrati non li chiamiamo neppure illegali, perché sono fratelli che fanno parte della nostra famiglia cattolica. A parte le questioni di fede, però, sono davvero tutti una famiglia. Conosco centinaia di fedeli che hanno parenti da una parte e dall’altra del confine, alcuni di loro legali, e altri illegali: come faranno a separarli?». Un esempio è Antonio Marquez, un ragazzo del Daca, che studia giornalismo al San Diego City College nelle classi tenute da Aida: «Io non ho violato la legge o sfruttato il sistema. Ho lavorato sodo tutta la vita, per accedere all’università e costruirmi un futuro. Ora però vivo nel terrore, perché i miei genitori mi hanno portato in America da bambino, e quindi mi aspetto che da un momento all’altro la polizia venga a bussare alla mia porta».

Gli arresti e le espulsioni sono già ai massimi di sempre, 46.197 solo nel mese scorso di ottobre. «La Casa del Migrante – spiega padre Murphy – era nata per aiutare quelli che andavano dal Sud al Nord, ma ormai il flusso si è invertito. In media riceviamo ogni giorno 30 deportati. Prima venivano dal Messico, ora soprattutto da Salvador, Honduras e Guatemala, e poi c’è l’esplosione degli haitiani. Se non si affrontano le cause di questo fenomeno epocale, cioè le condizioni di vita nei Paesi d’origine, non è curando i sintomi che guariremo. Anche arrestando i criminali, che sono la minoranza». Martin annuisce dalla cucina della Casa, dove sta tagliando le patate per il pranzo: «Quanto pensate che resterò qui? Tra qualche giorno torno a Matamoros, la città sul Rio Grande dove sono nato, e appena avrò un po’ di soldi attraverserò ancora il fiume. Però non ditelo a Trump, ché sennò mi impicca».

(Paolo Mastrolilli/La Stampa)

15 Novembre 2016 | 17:00
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