Dall'adrenalina al fuoco della fede. La testimonianza di Didier Berthod, ex scalatore svizzero

Château Rima, nel Sud della Francia, occupato da qualche anno dalla comunità religiosa di Eucharistein. Nata in Vallese nel 1996 e composta da fratelli e sorelle uniti dai tre voti di povertà, castità, ubbidienza, la Fraternità ha come scopo l’Adorazione di Gesù nell’Eucaristia ed è questo il luogo scelto dallo scalatore svizzero Didier Berthod per consacrarsi a Dio.

Una scelta che può sembrare particolare, forse incomprensibile, quando invece sei stato conosciuto per essere una «star dell’alpinismo», anche al centro di alcune pellicole cinematografiche che ne hanno documentato l’impresa. Ma alla soglia dei suoi trent’anni Didier è ora «Padre Didier», ordinato sacerdote nel giugno di quest’anno. Della sua esperienza di scalatore rimangono come ricordo solo i pantaloni «Mammut» da scalatore, ma anche le mani rugose, che hanno toccato migliaia di rocce.

«La mia vita erano le scalate, e nient’altro», racconta Didier. Ma oggi Didier non scala più. Raccontando questo cambiamento radicale, Didier risale ai tempi in cui era adolescente e scalava con suo fratello Cyrille. «Ho cominciato a scalare all’età di 13 anni e molto presto tutto ciò è diventato una passione travolgente», ricorda. «A furia di scalare, abbiamo fatto molti progressi e in qualche anno ci siamo dati a sfide sempre più ardue» A 18 anni sono entrato in una squadra svizzera».

Un bisogno troppo grande di libertà per questo giovane uomo. «Per me scalare era un atto anticonformista: a paragone con gli altri, la nostra vita di scalatori – così pensavo – era migliore, era vissuta più intensamente». Ma la ricerca d’intensità diventa a poco a poco una fissazione. «Essa rappresentava la bellezza estetica, la tecnica e la capacità di superare ogni difficoltà. Le scalate difficili mi piacevano, perché mi sembrava riempissero la mia sete di vita».
Allora Didier prende le sue cose e si imbarca per gli Stati Uniti. Era il 2002. Voleva confrontarsi con le pareti rocciose del Parco nazionale di Yosemite. «Ero bravo tra i bravi, andavo fuori dai confini battuti. Rappresentavo ai miei occhi il modello di uomo felice che avrei sempre voluto essere e che anche gli altri cercavano: ero una figura mediatica».

Una vita cristallizzata attorno alle scalate

Di ritorno in Svizzera, Didier comincia la formazione di guida alpina, sempre con suo fratello. Ma nel 2003 le prime avvisaglie che «tutto è troppo»: dei dolori al ginocchio destro lo obbligano a farsi operare. «Ho avuto a quel punto la chiara sensazione che fosse un segno. Per la prima volta il mio senso di infinito era frustrato. Mi vedevo in declino, sentivo che quel fuoco sacro mi stava lentamente lasciando. Ma siccome la mia vita era cristallizzata attorno allo sport, non potevo far altro che trovare il mio rifugio lì». Dunque Didier si sforza ancora di andare in quella direzione, pur sapendo che era una sorta di autosoddisfazione. Si sposta da una parte all’altra del globo per scalare. Finché arriva in Canada, a scalare il monte Cobra e lì sperimenta tutto il suo limite: non ci riusciva, anche l’altro ginocchio lo stava lasciando.
24 anni passati nella notte
Ma dalle rocce all’anima, dov’è sta Dio in tutto questo? «Non sono mai veramente stato lontano dalla fede, ma mi sono accorto tardi che la mia vita dipendeva tutta da Dio. Quando scalavo, la mia fede era un segno distintivo rispetto agli altri scalatori; forse è perché una forma di fede è insita nell’atto stesso di scalare, che non venivo rifiutato del tutto dal gruppo come «credente». Avevo addirittura già pensato a una vocazione religiosa, ma quando mi avevano parlato apertamente di vita comunitaria, ero fuggito. Non ero pronto ad abbandonare il mondo delle rocce che per me equivaleva alla libertà. Sono solo i colpi duri al mio fisico, che mi hanno fatto poi ricredere». Didier, in particolare, fa esperienza di Dio il giorno di Pentecoste del 2006. «Questo incontro è stato come un terremoto per me, la cosa più forte in 24 anni di vita. D’un colpo, tutto ha acquisito un senso diverso». Si decide così per la comunità Eucharistein, ubicata in Vallese. «Questa volta ero pronto ad accettare la vita comunitaria e le cinque ore di preghiera quotidiana». Una scelta difficile da far comprendere agli altri: «Per i genitori, è duro donare un figlio alla Chiesa. Mio fratello, con il quale avevo sempre scalato, ha rispettato la mia volontà senza giudicarmi, anche se qualcosa «gli sfuggiva». Per gli amici, invece, avevo lasciato una vita avventurosa e stimolante per il nulla».

Una vita strutturata dalla fede
Ma a Didier tutto questo non importa: «Ho messo la medesima radicalità nella fede che quella che avevo nelle scalate». «Ho sperimentato la mia notte, il mio corpo gridava, chiamava le rocce. Ma sapevo che è lo spirito che deve guidarci, non il corpo». A Rima, Didier arriva nel 2007 in realtà dopo un pellegrinaggio in Cina e Tibet sulle orme del missionario vallesano Maurice Tornay. «Questa esperienza mi ha fatto scoprire l’universalità della Chiesa cattolica nel mondo, la solidarietà possibile tra gli uomini. Questa stessa solidarietà volevo viverla qui, nel cuore dell’Europa, con i miei fratelli». Con una ventina di persone, uomini e donne della sua età, Didier incomincia così ad andare sempre più spesso a fare dei ritiri presso la comunità Eucharistein. «Oggigiorno vedo i miei genitori una volta all’anno, per il resto sono un discepolo di Cristo con tutta la radicalità che questo comporta». Sostenendosi grazie alla Provvidenza, la comunità di Dider vive nella più grande semplicità, la preghiera, l’ubbidienza, la castità. «Ormai la mia vita di prima non mi manca più. Qui la mia vita è strutturata e al servizio di un mondo interiore condiviso con Cristo, che ha colmato la mia sete di Dio». Egli affronta la sua vita di giovane prete con la consapevolezza di chi sa di aver trovato la propria strada: «Ora studio teologia, andando alla ricerca di quelle belle «fessure» nella roccia che prima trovavo nella natura».

Fonte: eucharistein.ch/red

15 Novembre 2018 | 11:10
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