Corno d’Africa: diciassette milioni di persone alla fame

Nel Corno d’Africa diciassette milioni di persone rischiano di morire di fame e di stenti. O comunque di sopravvivere in condizioni di acuta malnutrizione a causa della persistente carestia. Gli allarmi si sono moltiplicati dopo la recente dichiarazione ufficiale del governo di Juba dello stato di carestia (la prima nel mondo da sei anni a questa parte) in due regioni del Sud Sudan. Solo in questo paese africano, ha denunciato l’Unicef sono a rischio circa cinque milioni e mezzo di persone, in pratica il 50 per cento della popolazione. Lo stato di carestia — soprattutto in alcune zone dello stato centro-settentrionale di Unity — è stato dichiarato in conseguenza della lunga e sanguinosa guerra civile in atto dal 2013 e della crisi economica che ha devastato il più giovane paese al mondo.

La recrudescenza delle violenze nel 2016 ha ulteriormente ridotto la produzione alimentare, anche in zone in precedenza stabili. E l’inflazione galoppante — fino all’800 per cento di anno in anno, rilevano gli analisti economici — ha colpito numerose famiglie che tradizionalmente non soffrivano esigenze alimentari. Oltre all’Unity, gli operatori umanitari sono già al lavoro per contrastare gli effetti della siccità con diversi progetti in Upper Nile, Jonglei, Western e Central Equatoria, volti a rispondere alla tragica crisi umanitaria ancora in corso in seguito al conflitto interno, esploso nel 2013. Anni di combattimenti, che hanno gravemente pregiudicato la produzione agricola e i mezzi di sussistenza rurali.

La drammatica prospettiva è che la calamità sudsudanese si allarghi a un milione di persone, afferma la Fao in un comunicato. «Le nostre peggiori previsioni si stanno avverando», ha dichiarato in una nota Serge Tissot, responsabile della Fao nel Sud Sudan.

Il Sud Sudan ha già subito una carestia nel 1998, a causa della guerra civile per l’indipendenza dal Sudan, con diverse centinaia di migliaia di vittime. Ma se la risposta umanitaria non sarà efficace e tempestiva, è probabile che ci si possa trovare di fronte alla più grave carestia del nuovo millennio.

La carestia, innescata dalle guerre e da una persistente siccità, sta comunque flagellando l’intero Corno d’Africa e come detto colpisce più di diciassette milioni di uomini, donne e bambini tra Gibuti, Eritrea, Etiopia, Somalia, Sudan e i limitrofi Uganda e Kenya, dove i campi profughi sono diventati enormi agglomerati di tende e baracche nei quali proliferano fame, malattie e violenza. Un recente appello delle organizzazioni umanitarie internazionali riguarda proprio queste popolazioni, costrette a fuggire da condizioni di vita insostenibili e che ora sempre più, «a fronte di altre grandi crisi umanitarie, rischiano di essere abbandonate, lasciate indietro e dimenticate».

Se la siccità è determinata anche da condizioni naturali, precisano gli esperti, la carestia e la conseguente catastrofica perdita di vite umane dipende interamente dal mancato intervento o dai danni prodotti dall’uomo che, per i paesi del Corno d’Africa, significa conflitti permanenti, collasso delle strutture statali e aiuti insufficienti.

Sono mesi che tra Somalia e Sud Sudan non cade una goccia d’acqua, con i prezzi dei generi alimentari che hanno raggiunto dei livelli inaccessibili per la popolazione, mentre combattimenti e attentati non danno tregua e rendono estremamente complicato l’accesso delle organizzazioni umanitarie. Data la gravità della situazione è quasi impossibile portare avanti i progetti di assistenza medica e sanitaria, i programmi nutrizionali, la protezione delle donne e dei bambini a rischio di abusi.

Le cifre di questa tragedia annunciata si rincorrono al rialzo. Restando nella sola Somalia, entro giugno — indicano gli analisti — oltre sei milioni di persone, la metà della popolazione somala, si troveranno in una condizione di urgente stato di bisogno. Migliaia di famiglie stanno già abbandonando le loro case per cercare rifugio anche fuori dal confine. Ma se nel 2011 più di 130.000 somali trovarono rifugio nel campo profughi di Dadaab, in Kenya, il più grande del mondo, che ospita attualmente oltre 250.000 somali (dati dell’Unhcr, l’alto commissariato Onu per i rifugiati), questa soluzione potrebbe non essere più praticabile, poiché le autorità di Nairobi hanno recentemente deciso la chiusura del campo entro la fine di maggio.

(Osservatore Romano)

22 Febbraio 2017 | 09:50
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