Ticino e Grigionitaliano

Commento al Vangelo di domenica 2 agosto: la moltiplicazione dei pani e pesci

di Gaetano Masciullo

Il Vangelo di domenica 2 agosto ci offre un episodio che l’immaginario comune ha ben presente, ossia la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Pur essendo un episodio molto noto, è bello soffermarsi su alcuni particolari di questo brano per capire più profondamente che questo evento prodigioso, che arrivò a satollare più di cinquemila persone a partire da cinque pani e due pesci, non fu un «gioco di prestigio» da parte di un Dio che volle ostentare il proprio potere sulla natura, ma di un miracolo, ossia di un’azione che va a stravolgere ciò che è atteso, ciò che è nell’ordine del quotidiano, per manifestare una volontà di amore altrettanto inattesa, altrettanto straordinaria.

E infatti l’amore è al principio di questo brano. Dopo aver saputo che il Battista era stato decapitato da Erode, per la sola colpa di aver ribadito una verità morale, Gesù si ritira nel deserto. Ma questo non basta per evitare le folle, affamate di verità, affamate – forse senza saperlo – di un rinnovamento che tocchi il cuore di Israele, ancor prima che la sua costituzione sociale. Allora ecco l’amore: Gesù, scrive il vangelo di Matteo, «sentì compassione per loro e guarì i loro malati» (Mt 14,14).

La compassione è resa nel testo greco con il verbo σπλαγχνίζομαι (splanchnizomai), un verbo che fu tradotto in latino nella Vulgata con l’espressione misertus est. Il verbo greco viene dalla parola σπλάγχνον (splanchnon), che vuol dire ›fegato’. Ma anche la parola misericordia presenta in sé cardium, ossia ›cuore’. Il sentimento che Gesù provò davanti alle folle proveniva dall’intimo, dalle profondità del suo animo. Questo episodio sgorga quindi dalla misericordia di Dio. Cosa è allora la misericordia? San Tommaso d’Aquino scriveva che la misericordia è uno dei quattro modi possibili con cui possiamo provare tristezza. Quando percepiamo un male altrui, proviamo tristezza come se tale male fosse nostro. È chiaro che per provare questa «nobile tristezza» bisogna amare: solo chi ama il fratello può intristirsi quando questi soffre. Possiamo dire che la misericordia sia la tristezza divina e che si contrappone alla tristezza diabolica, ossia al modo di provare tristezza che è specularmente opposto alla misericordia, cioè l’invidia, la tristezza che nasce dalla percezione del bene altrui: non a caso, è scritto che «per invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo» (Sapienza 2,24).

Le folle dunque rimangono nel deserto, alla presenza di Gesù, fino a sera. Il deserto e la sera sono rispettivamente una condizione spaziale e una condizione temporale che rimandano ad una forte dimensione di precarietà: nel deserto non c’è cibo, non ci sono mezzi per vivere, e la sera reca con sé il buio, l’incertezza. Gli apostoli lo sanno bene e infatti lo ribadiscono: «Il luogo è deserto e l’ora è tarda; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare» (Mt 14, 15). Cristo però stravolge la prospettiva: «Voi stessi date da mangiare». Ed è quello infatti che accadrà. Nonostante la grave precarietà della vita e del mondo, Cristo ci offre continuamente la sua misericordia, attraverso la Chiesa – rappresentata dagli Apostoli – ed anzi, la misericordia divina è così ricca che arriva a donare anche più del necessario, tanto che avanzarono dodici ceste piene di cibo (Mt 14, 20). Cosa resta da fare dunque da parte nostra? La risposta è tanto semplice nel dirla quando difficile nel viverla: avere la forza di aspettare, nel deserto e sul far della sera, che Dio agisca straordinariamente anche nella nostra vita. Avere la forza di credere in una provvidenza che dà vera pace al cuore. Solo in questo modo, il nostro cuore sarà capace di provare a sua volta misericordia per chi ci è accanto.

2 Agosto 2020 | 10:00
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