Il calcio «come una volta» nella squadra di migranti

Boris indossa la 8 sulla maglia. E quando l’arbitro negli spogliatoi legge la distinta di chi deve scendere in campo, fa come i calciatori famosi in tv. Si gira e porta con orgoglio le mani oltre le spalle, indicando con i pollici quel numero. «In quel gesto c’è tutto» dice Carola Coppo, una delle dirigenti che segue la squadra dei richiedenti asilo iscritta al campionato Csi amatori del Canavese. C’è la fuga dal Senegal, il viaggio sul gommone, lo sbarco a Lampedusa e il sogno di una vita migliore. La squadra di migranti è solo la punta di un movimento che l’Ivrea 1905 ha fatto nascere, perché oltre a loro ci sono anche la squadra femminile e gli insuperabili, i ragazzini portatori di handicap che, attraverso lo sport, stanno riscoprendo la forza di essere vivi. L’idea è fare del calcio dilettantistico qualcosa che non sia solo agonismo e vittoria. «Prima della parola calcio ce n’è un’altra, gioco. Ed è da lì che si deve ripartire» dicono al campo sportivo Gino Pistoni.

 

E allora ripartiamo da qui, dalla squadra Csi dei migranti che si presenta al campo alle 11 del mattino anche se la partita comincia 5 ore dopo. O dai ragazzini disabili che incontrano i loro coetanei ma dove nessuno infierisce. Così quando il numero 9 fa un gol si commuove: «Era dispiaciuto per il portiere, davvero». È il senso dello sport dei bambini, inquinato troppo spesso dagli adulti, da quel mondo dove il calcio, anche nei campi di periferia, viene preso troppo sul serio. Fa sorridere pensare a quei ragazzi, 25 in tutto, sbarcati in Italia dopo i viaggi nei barconi, presentarsi 5 ore in anticipo, fa tenerezza l’impegno dei bambini disabili e colpisce il senso tattico di queste quindicenni che indossano la maglia dell’Ivrea e sognano quella della Juve. Come Nicol Gianesin, capocannoniere, lo scorso anno, in serie D e oggi in prestito proprio alla Juve.

 

Stefano Braghin è l’uomo che ci ha creduto di più. Due anni fa si è presentato in uno studio notarile di Torino assieme a tre amici, Ludovico Capussela, Celere Spaziante e Igor Trovero. L’idea? Acquistare il marchio storico dell’Ivrea calcio, restituendolo alla maglia arancione, quella che nei tempi d’oro aveva portato la squadra fino alla C1 e continuare la sua storia. Ce l’hanno fatta. Tre campionati dopo la squadra è al primo posto in Prima categoria, punta a vincere un torneo dopo l’altro, sogna e gioca con la maglia storica e rigorosamente senza sponsor. «Come una volta» dice il presidente, Stefano Sertoli. E come una volta, appunto, il calcio si deve intendere abbinato alla parola gioco più che alla parola «business». Oltre alla prima squadra il movimento si è allargato. C’è quella femminile, ora in C, le giovanili con 200 ragazzi, quella dei migranti e dei disabili.

 

Lo sanno o almeno lo immaginano i ragazzi richiedenti asilo, segnalati da tre cooperative del territorio e a cui è stata data anche una responsabilità non da poco, visto che due sono dirigenti e si occupano di tutta la parte burocratica. «Qui non vogliamo fare assistenzialismo, né tantomeno politica» dice Carola. Finita la prima partita, persa 3 a 2 («ma loro ci mettono tanta foga, peccato non abbiano un gran senso tattico»), Boris infila la maglia numero 8 nel borsone. Saluta con un sorriso grande così. Non han vinto ma si sono divertiti. «E va bene così» dice in francese prima di sparire.

Gampiero Maggio – VaticanInsider

10 Novembre 2017 | 07:10
Tempo di lettura: ca. 2 min.
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