Bullismo online. Lo cavalca anche il marketing: parlatene male, basta che ne parliate

Il «bullismo online» è un’invenzione del marketing. Si tratta di uno dei fenomeni meno compresi della nuova comunicazione digitale del terzo millennio. Gli «haters» (letteralmente, odiatori), o i «troll», come li chiamano i nerd del web, sono spesso anonimi o con identità inventate e invadono Facebook, Twitter e gli altri social con frasi piene di odio e di insulti. Sembrano animati da spirito critico (c’è addirittura una categoria di «troll etici») o da semplice frustrazione esistenziale. Ne fanno le spese più o meno tutti coloro che hanno un account sui social.

Un post di insulti non si nega a nessuno, per i motivi più vari.

I media si occupano delle vittime più note. In questi giorni di calura estiva, con fatti e notizie molto più gravi (Nizza, Monaco, Turchia e lo scontro fra i treni in Puglia), i giornali hanno trovato voglia e spazio per occuparsi delle polemiche sui social che hanno riguardato, in ordine sparso, il disegnatore Zerocalcare, l’intrattenitore Paolo Bonolis e l’attrice Usa Leslie Jones, una delle quattro protagoniste del «reboot» (termine tecnico che indica il rifacimento cinematografico di un film) di «Ghostbusters».

Il bullismo online, quindi, non colpisce solo adolescenti e ragazzini, riguarda in modo preoccupante anche il mondo degli adulti. 

Se ne discute in modo dotto in molte sedi. Si parla di frustrazione della società dei consumi, come nel caso di Paolo Bonolis insultato per aver «postato» le foto di un viaggio con famiglia nella lussuosa suite di un jet privato. Si denuncia anche l’inadeguatezza della politica rappresentativa che lascia agli insulti dei singoli lo spazio che dovrebbe essere destinato al dibattito e alla dialettica, come nel caso di Zerocalcare, insultato e alla fine anche «bannato» (oscurato) da Facebook per aver annunciato la propria partecipazione alle commemorazioni di Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso da un carabiniere a Genova durante gli scontri per il G8 del 2001. Si discute invece molto di meno degli effetti marketing di questa diffusa «maleducazione» sul web. Qualche domanda, però, gli esperti cominciano a porsela. Nel caso del film «Ghostbusters», la campagna di «odio» è cominciata apparentemente su due temi. Gli appassionati fan del film originale (un successo di più di trent’anni fa) avrebbero reagito con sdegno alla sola idea che si potesse mettere mano ad un intoccabile capolavoro. Nel rifacimento poi, i quattro protagonisti di allora, Bill Murray, Dan Aykroyd, Harold Ramis e Ernie Hudson, sono stati sostituiti con quattro donne. Una di queste, Leslie Jones, è afro-americana. Gli insulti misogini e razzisti hanno animato il cocktail della campagna contro il film. »Il primo trailer del film – uscito a marzo – è il trailer cinematografico con il maggior numero di «dislike» (il pollice in giù usato per dire che una cosa non piace) di YouTube. Alcuni esperti di cinema ne hanno parlato come di un trailer piuttosto deludente, ma allo stesso tempo hanno notato come difficilmente tutti quei dislike (poco meno di un milione su 36 milioni di visualizzazione) possono arrivare solo da persone rimaste scontente da un trailer poco emozionante.

Il rapporto tra dislike e visualizzazioni è stranamente alto, molto più che in altri casi di trailer generalmente ritenuti altrettanto brutti da un punto di vista tecnico e stilistico», scrivono i redattori de Il Post. Si tratta di un trucco del marketing. Parlatene male basta che ne parliate.

Si tratta quindi di una tecnica che i professionisti della comunicazione commerciale hanno imparato da tempo a gestire. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Uno dei più importanti aggregatori di blog del mondo, «Tumblr», deve una parte non secondaria della propria fortuna al traffico generato dalle campagne di odio di troll e haters. Anche il social più usato dagli adolescenti, «Ask», macina miliardi proprio grazie agli insulti che i ragazzini (o chi per loro) si scambiano con un’energia degna di miglior causa. Neanche alcuni casi sospetti di suicidi fra gli adolescenti hanno fermato la corsa di «Ask». Odio, frustrazione, rabbia, rivendicazioni: sono sentimenti reali. Ne abbiamo avuto tragica conferma sul lungomare di Nizza e nel centro commerciale di Monaco. Sul web però l’autenticità di questi oscuri moti dell’anima diventa uno strumento pericoloso nelle mani della comunicazione commerciale (vedi il caso del film «Ghostbusters»), della politica (come nel caso del dibattito sul G8 di Genova che non si riesce ad aprire proprio a causa degli odiatori di professione) e del reclutamento delle nuove frange digitali dei professionisti del terrore.

(Agensir)

20 Agosto 2016 | 19:20
Tempo di lettura: ca. 3 min.
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