Bonheur du Ciel, la piccola impresa libanese dove i cristiani fanno del Ramadan una festa di fratellanza

Il Ramadan di questo 2017 ancora non era finito, ma non ci mancava molto. Mi ero svegliato da poco, a Beirut, quando ho ricevuto la telefonata di un mio vecchio conoscente. Mi invitava a raggiungerlo a Tripoli, nel nord del Paese, prima che il mese santo per i musulmani si concludesse. Quel pomeriggio stesso ho preso la macchina e l’ho raggiunto. Arrivare a Mina, il quartiere del porto di Tripoli, non è difficile. E individuare la stazione di benzina dove solitamente ci diamo appuntamento non poteva mettermi in difficoltà, sebbene mancassi da tempo. Quindi mi ha portato alla locanda dell’associazione Bonheur du Ciel, dove Anna, Maria e altri si preparavano a servire agli indigenti l’iftar, cioè il pasto con cui i musulmani rompono il digiuno e che loro preparano ogni giorno. «Questo vuol dire essere cristiani nel Medio Oriente», mi ha detto un signore che aveva salutato con calore il mio amico: parole che hanno avviato una lunga conversazione, che ci ha portato in un caffè non distante. E mi sono ritrovato immerso con lui in una discussione importante sui cristiani e il loro ruolo nel Medio Oriente. «Né illusi né rassegnati, ma fedeli alla spirito della lettera a Diognèto, dove si dice che i cristiani rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo. L’anima si trova in ogni membro del corpo; ed anche i cristiani sono sparpagliati nelle città del mondo «; è stata un po’ questa la sua idea- guida.

 

Citando sovente questo testo del II secondo secolo dopo Cristo, spesso citato nei documenti del Concilio Vaticano II, mi ha detto che illudersi sarebbe da ingenui, ma rassegnarsi sarebbe da inconsapevoli. «Non abbiamo altra strada che perseguire la pari cittadinanza tra tutti noi, cittadini dello stesso Paese. Siamo fratelli, e l’iftar che si celebrerà tra poco lo dimostra. Qui c’è l’essenza della rivoluzione cristiana, che fa di Dio il Padre Nostro. Questa terra, il Levante, è la terra della moderazione, dell’accoglienza dell’altro, tanto tra i cristiani quanto tra i musulmani. Il Levante esiste ed è questo. Ecco perché considero quella in atto una vera guerra contro questo spirito che accomuna le genti di questa terra, da parte dei totalitaristi che per opposte ragioni vogliono dividerci. E colpiscono noi perché ci sanno il fianco tenero, debole, della società accogliente. Se noi cedessimo alla paura, sperando che qualcuno ci protegga, finiremmo con l’esserne ostaggi.»

 

Il discorso mi è apparso di stringente attualità e gli ho chiesto di farmi un esempio. «Il male genera male, l’estremismo genera estremismo, ma non c’è solo un estremismo che coltiva la cultura dell’odio. Ricorderà la strage di Capodanno, nella chiesa copta di Alessandria d’Egitto. I terroristi uccisero almeno venti fedeli. Il Vaticano insorse e un’erronea lettura di quanto invocò papa Benedetto XVI provocò addirittura una crisi. Ma cosa era successo? Proprio allora Al Qaida invocava la nostra eliminazione cruenta, certo non solo a parole, ma presto si cominciò a vedere che c’era anche l’intelligence di un regime con l’acqua alla gola dietro quell’attentato. Allontanare, dividere noi, quelli che preparano l’iftar a Bonehur du Ciel e chi lo consuma è da sempre l’obiettivo di tanti. Solo la cultura dell’odio o quella della paura appaiono capaci di far dimenticare all’uno quanto all’altro che siamo fratelli, destinati a vivere insieme. Costruire un circuito virtuoso sarà certamente complesso: Francesco ha ricordato che il vero nome della pace è sviluppo, e da nessuna parte questo è più vero che qui, dove accanto ad enormi risorse c’è una miseria sempre più degradante. E così restiamo da secoli ingabbiati nell’idea di «protezione». Il Sultano, fino alle riforme, «proteggeva» a certe condizioni i «popoli del Libro», cittadini dell’impero, ma di serie b. Non voglio farle un trattato di storia, ma oggi non è questa la protezione che uno Stato garantisce ai suoi cittadini. E di qui il passo al sistema della protezione in cambio di «fedeltà» è breve. Ma io sono fedele a Gesù, non ad altri.»

 

E’ stato allora che il mio interlocutore ha salutato un esule siriano, come tanti ospiti di Bonheur du Ciel. ” Ecco, lui è qui da anni, più o meno da quando rapirono i monsignori Yohanna Ibrahim e Bulos Yazigi, rispettivamente vescovo siriaco-ortodosso di Aleppo e greco-ortodosso della stessa città. Ricorderà, si trovavano assieme a bordo di un’auto proveniente dal confine turco, distante una trentina di chilometri. Erano diretti ad Aleppo, ma all’altezza di Kfar Dael, località alla periferia orientale del centro urbano, sono stati fermati da «uomini armati» che hanno intimato a loro e all’autista, un diacono, di scendere dall’auto. Tanti hanno scritto che dopo aver ucciso l’autista, gli uomini armati si sono dileguati portando con sé i due vescovi in un luogo sconosciuto. Fatallah, l’autista, era un cattolico di rito latino e ha lasciato tre figli.» A quel punto l’amico siriano ha come proseguito il suo racconto: «Jamil Diarbekirli, un familiare di Yohanna Ibrahim, ha dichiarato già nel 2013 che c’era con loro una quarta persona, legatissima al vescovo, un uomo anziano con cui sono ancora in contatto. Ed ha aggiunto che Fetallah, l’autista, è stato ucciso tre ore dopo il sequestro da altri sicari. Poi il buio… Anche padre Dall’Oglio è sparito, giusto? Ma del suo sequestro non sappiamo neanche le modalità…» Quello di sparire senza lasciare tracce, ho pensato seguendo quel filo, sembra il destino dei costruttori di ponti.

 

Intanto l’iftar era quasi finito e io ho preferito prendere la strada che mi riportava a Beirut. Avevo poco tempo e volevo ancora capire qualcosa del convegno cristiano-musulmano proprio sulla cittadinanza che si aprirà sabato all’università di Notre Dame. Avevo ancora negli occhi i volti di Tripoli quando ho incontrato uno dei promotori di quell’incontro. Il giorno precedente era stato da interlocutori musulmani, per invitarli. «Come è andata? Mi ha colpito che mi abbiano ricevuto chiedendomi se volessi dell’acqua, del caffè. Mi vedevano accaldato, ma sapendo che è Ramadan ho rifiutato. Inutilmente. Hanno insistito, dicendo che tra i loro obblighi c’è l’ospitalità, e che non volevano che i loro doveri religiosi mi gravassero come un’imposizione.» Quando gli ho detto che questo dettaglio colpiva anche me, visto che tornavo da un iftar preparato da cristiani, mi ha detto anche lui che questo è esattamente il senso dell’essere cristiani nel Levante.

Riccardo Cristiano (VaticanInsider)

29 Giugno 2017 | 17:55
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